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 2011  marzo 19 Sabato calendario

L’ITALIA AL FRONTE, TRA RAID AEREI E LA PAURA DEI MISSILI DEL RAÌS

Ora l’Italia è in prima fila”, titolavano i giornali dopo il, mai del tutto chiarito, attacco missilistico libico contro Lampedusa del 15 aprile 1986. Venticinque anni dopo “l’Italia è in prima fila” nella battaglia per la Libia e contro Gheddafi. Roma schiera almeno 5 unità navali, tra cui il Garibaldi - incrociatore portaelicotteri e portaerei leggera - che sta facendo rotta verso le coste libiche e almeno 7 basi aeree per il sostegno delle operazioni militari che la “coalizione dei volenterosi” è pronta a lanciare. Ma, come mette in guardia anche l’ex ministro degli Esteri D’Alema, dall’altra parte del Mediterraneo, a poche centinaia di chilometri dalle coste italiche, anche Gheddafi si potrebbe apprestare a lanciare le sue armi: a parte i caccia sovietici (e alcuni Mirage francesi) soprattutto i missili, sempre provenienti dall’ex Urss, Scud-B e C (i primi come quelli lanciati contro Lampedusa e i secondi, più moderni e di più vasto raggio, al centro di forniture avvenute una decina di anni fa). L’intera Sicilia - dove le piste di Sigonella e Trapani potrebbero ospitare i caccia francesi e britannici che compierebbero i raid ai quali, fanno capire Frattini e il ministro della Difesa La Russa, parteciperebbero anche velivoli italiani, con precisi compiti di annullare le difese antiaeree del Colonnello, in azioni simili a quelle compiute nella guerra del Kosovo - sarebbe sotto tiro dei missili del raìs. “Le ritorsioni di Gheddafi sono improbabili ma le nostre forzesonopronte”,sostieneilministro degli Esteri Frattini. E il ministero dell’Interno fa sapere che la vigilanza degli “obiettivi sensibili” è stata innalzata.
ANCHE L’ITALIA considera un doppio bluff - le minacce di entrare a Bengasi e vendicarsi dei rivoltosi e quelle lanciate contro la comunità internazionale - la strategia del Colonnello: il tentativo estremo di guadagnare tempo. E c’è la consapevolezza di dover andare “fino in fondo”, anche per non tradire la fiducia degli alleati occidentali. Perciò l’ambasciata a Tripoli è stata evacuata, con personale e giornalisti italiani che si sarebbero già imbarcati su voli (e anche navi) in direzione dell’Italia. Quando chiudono le ambasciate, dopo non molto volano i caccia, si sganciano le bombe, e alla fine arrivano i “nostri”.
Ne è certo uno dei maggiori esperti militari italiani, Fabio Mini : “È probabile che la No-fly zone sulla Libia porti a un’invasione di terra. Di più, la no-fly zone non è un atto militarmente determinante. Può essere imposta per anni su un Paese, senza toccare davvero la sua forza militare”. Il generale, già comandante della forza internazionale di pace in Kosovo e Capo di Stato maggiore Nato in Sud Europa, si dice certo che la no-fly zone decisa dall’Onu e che membri dell’Alleanza atlantica e dei paesi arabi devono far rispettare potrebbe esser l’inizio “di una escalation dagli esiti imprevedibili e potenzialmente distruttivi”.
La risoluzione 1973 cosa prevede esattamente?
Ci sono due aspetti: il primo è che per applicare la no-fly zone bisogna essere in grado di colpire gli obiettivi a terra che sostengono la forza aerea. E quindi le basi aeree, le basi missilistiche, le artiglierie contraeree, i radar, tutta la strumentazione che deve essere messa fuori uso prima di controllare lo spazio aereo. C’è poi il secondo aspetto, quello della risoluzione, che non istituisce semplicemente la no-fly zone, ma che dà alla comunità internazionale il diritto di usare tutti i mezzi per proteggere la popolazione civile.
Qualcosa di più di una semplice no-fly zone?
Esattamente. La risoluzione dà alla comunità internazionale non solo il diritto di presidiare lo spazio aereo, ma anche quello di intervenire ogni volta che la sicurezza dei civili sia messa in pericolo. Questo significa che se le truppe di Gheddafi decidessero dibombardareBengasi,oqualsiasi altra città, gli eserciti stranieri avrebbero comunque il diritto di bombardare. Con i rischi per i civili che possiamo immaginare. Cosa faremo nel caso Gheddafi decidesse di condurre operazioni militari contro i ribelli nelle città riconquistate? Bombarderemo? E le nostre bombe chi colpiranno? In Kosovo abbiamo bombardato obiettivi civili, pensando fossero militari.
Una no-fly zone ha la possibilità di rivelarsi determinante per fermare Gheddafi e bloccare la carneficina?
No. Saddam ebbe due no-fly zone per ben 12 anni. Per reprimere gli sciiti e i curdi, gli bastò strisciare, non ebbe bisogno dello spazio aereo. Per assurdo, il divieto di volare può aumentare la disposizione di un tiranno sanguinario di fare a terra quello che non può fare dall’aria. È successo con Saddam, ma è successo anche con l’operazione Deny Flight in Bosnia-Erzegovina, con il divieto di volo ai serbi. Ciò che non impedì ci fosse Srebrenica e altri massacri.
Da un punto di vista militare, di cosa ha bisogno l’imposizione di una no-fly zone?
Di una marea di cose. Di aerei intercettori che effettuino il pattugliamento, di sorveglianza radar, di aerei per il rifornimento in volo, di Awacs per le operazioni d’identificazione degli obiettivi, di un sostegno logistico enorme, di basi avanzate, come quelle di Sigonella, Gioia del Colle, Trapani, e di altre più arretrate, come Aviano. C’è bisogno, nel caso della Libia, di una copertura anche navale . Con i radar delle navi si può controllare il territorio, con i missili delle navi, soprattutto quelli superficie-aria, si può fiaccare la resistenza dell’esercito. Ma c’è bisogno soprattutto di una straordinaria coesione politica e diplomatica. Tutti i Paesi intorno alla Libia devono essere coinvolti. Mauritania, Ciad e gli altri stati africani che hanno legami stretti con Gheddafi, e verso cui il rais potrebbe spostare parte della sua forza militare.
Quale può essere l’esito finale della no-fly zone?
L’occupazione militare. Data l’esperienza passata, non esiste un solo esperimento di no-fly zone che si sia concluso senza ricorrere all’intervento di terra. Di solito il Paese cui viene imposta la zona di esclusione aerea continua a massacrare i suoi nemici, a reprimere i civili, a produrre fenomeni migratori. Le forze straniere sono costrette a intensificare gli attacchi. Il passo successivo è la guerra totale, con l’invasione da parte delle truppe di terra. Boots on the ground, scarponi sul terreno, si dice in gergo. È successo in Bosnia, in Kosovo, in Iraq. Servirà un’ulteriore risoluzione Onu, ma è l’esito più probabile.