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 2011  marzo 19 Sabato calendario

“Come Pinocchio sogno un Paese che non mi mangi” - «Per caso mi capita di leggere un’intervista in cui Giulio Einaudi afferma: “Rubare un libro non è un reato”

“Come Pinocchio sogno un Paese che non mi mangi” - «Per caso mi capita di leggere un’intervista in cui Giulio Einaudi afferma: “Rubare un libro non è un reato”. Caspita, mi dico, ha proprio ragione! Così vado in libreria e mi porto via senza pagarla la Critica della critica di Tzvetan Todorov». Un volume dello Struzzo, ovviamente. L’ha poi letto? «Todorov nell’introduzione lamentava la diminuzione dei lettori di letteratura. Per non parlare di quelli di critica. E per quelli della critica della critica? Ebbi la sensazione di aver compiuto veramente una buona azione, di essere uno dei pochissimi che aveva avuto il coraggio di prenderlo in mano». Csì Ascanio Celestini, il gran guitto del nostro teatro, l’interprete e il drammaturgo più diabolico e funambolico, ricostruisce il suo battesimo alla lettura appena uscito dall’età più verde. Lo racconta nelle sale dalla luce fioca della casa del cinema a villa Borghese, con la sua verve incontenibile, la barbetta mefistofelica e l’aria da «pischello», come avrebbe detto l’autore più amato, Pier Paolo Pasolini. Oggi pubblica una delle sue poetiche narrazioni più surreali e paradossali, Io cammino in fila indiana , proprio per i tipi dell’editore da cui non fu colto con le mani nel sacco: il trentanovenne autore di testi che ricostruiscono l’eccidio delle Fosse Ardeatine o le violenze sui malati di mente (ad aprile da Feltrinelli uscirà anche il dvd de La pecora nera con una raccolta di testimonianze e un diario di lavorazione del film) è ora approdato all’ultima spiaggia della ribellione: è il cantore del gesto anarchico, dell’insubordinazione violenta di chi pensa seriamente di sparare al vicino di casa razzista e sessista. Celestini si è poi concesso qualche altra effrazione nel mondo del libro? «Mi sono messo in tasca senza passare in cassa anche le Lezioni americane di Italo Calvino stampate da Garzanti e l’ho fatto per non infierire sempre sullo stesso editore. Successivamente, però, sono andato a Frascati in libreria e lì ho fatto una specie di abbonamento per avere un certo numero di volumi al mese. La mia prima attrazione fatale da bambino è stata invece Pinocchio ». L’ha ispirata per «Cecafumo», raccolta di fiabe per grandi e piccini? «Mio padre faceva il restauratore e aveva la bottega al Quadraro, mia madre era parrucchiera a Tor Pignattara, i libri che circolavano in casa appartenevano soprattutto a mia sorella. Pinocchio non è un romanzo e non è una favola, non è un esercizio di stile, è un’opera dadaista, assolutamente sconclusionata. Pervasa da un terribile senso di violenza e di morte. Si rammenta come si presenta al terribile burattino la fatina dai capelli turchini?». No, me lo ricordi lei. «Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale… disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo: “Non c’è nessuno. Sono tutti morti”. “Aprimi almeno tu!”, gridò Pinocchio piangendo... “Sono morta anch’io”. “Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?”. “Aspetto la bara che venga a portarmi via”». Celestini recita ad alta voce nel locale deserto (salvo una fugace apparizione del cantante Pupo in tuta da ginnastica), al tramonto di una giornata di pioggia, e sembra di assistere a una delle sue provocatorie esternazioni tra atmosfere funebri, rabbia e tanta ironia. Pinocchio lo sa tutto a memoria? «E’ il libro dei libri. Ecco che il burattino approda al paese delle api industriose cercando un posto dove “si possa mangiare senza essere mangiati”. Quando lui è stremato, ha fame e chiede aiuto gli offrono qualcosa solo se dà una mano. Gli propongono il lavoro minorile e lo trattano come da noi gli immigrati appena sbarcati». Una lettura non usuale. Altre pietre miliari della sua formazione? Dostoevskij, Tolstoj, Proust, Thomas Mann? «Prima ancora che mi cimentassi con questi giganti, mia sorella mi invitò a una sfida singolare: divorare in pochissimi giorni “Pippi Calzelunghe”. Vinsi la scommessa. Quando poi da neo diplomato andai a fare l’InterRail avevo vari tomi nello zaino, tra cui il Don Chisciotte di Cervantes. La cosa che mi colpì fu che il brano più famoso, quello in cui il cavaliere della Mancia combatte contro i mulini a vento, occupa solo mezza paginetta di tutta una lunga narrazione. A farmi scoprire la politica e a spingermi a iscrivermi alla facoltà di Lettere fu Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa. Fondamentali furono I racconti della Kolyma di Salamov Varlam, tremendi nella loro crudezza descrittiva, poi ci fu Italo Calvino con il Visconte dimezzato , il Barone rampante e le Fiabe italiane . Per approdare a quelle russe raccolte da Aleksandr Nikolaevic Afanas’ev. Una rivelazione fu Edoardo Sanguineti, autore di Postkarten e testi in cui, come dicevano sia Rilke che Brecht, non disdegnava di “affrontare argomenti complicati con linguaggio adeguato”. Era un uomo meraviglioso. Su richiesta del Corriere della Sera scrissi in suo omaggio una poesiola in stile gozzaniano e lui mi chiamò a casa per ringraziarmi. E io con la cornetta in mano ero basito, era uno dei più importanti poeti italiani che mi parlava». Suoi maestri di teatro? «Perla Peragallo che si esibiva in coppia con Leo De Berardinis. Ogni lezione era uno psicodramma e terminava con gli allievi stremati e in lacrime. Dopo l’ultimo incontro io finii in ospedale per curarmi dalla depressione mentre Perla chiuse la scuola e aprì un centro di culto in onore di Sathya Sai Baba». Quando scoprì Pasolini a cui ha dedicato Cicoria , dove affronta con leggerezza e fantasia il difficile tema della morte? «”Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone”, declamava il poeta. Poi c’era Ciampino, dove Pasolini insegnava. Sono i suoi luoghi, quelli in cui io abito tutt’ora. Lì giocavo o andavo in bicicletta. Mio nonno faceva la maschera al cinema Iris, vicino alla breccia di Porta Pia, e con mio papà ancora piccolo si recava al lavoro anche a piedi, macinando chilometri. Era molto pasoliniana la Roma in cui sono cresciuto. Era la città dei pratoni non ancora cementificati, della gente che si godeva la vita». Un ricercatore, lei si definisce anche così, che colleziona testimonianze orali che danno linfa e humus a opere e spettacoli. «All’origine di Pecora nera vi sono anni di frequentazioni di case di cura ma anche delle pagine di poeti, Alda Merini e Dino Campana, o di studiosi, Michel Foucault. Il mio carburante, però, lo sono stati anche racconti esemplari dal punto di vista drammaturgico, come quelli di Kurt Vonnegut o Everyman di Philip Roth. Sono un “ricercatore” che si è formato sulle opere di Ernesto De Martino ma la mia attenzione alla cultura orale e popolare è stata nutrita, è il caso di dirlo, tra fettuccine e polpette, nei giorni di festa, dalle mie zie con le loro favole. Mi hanno allenato a creder vere fiabe come quella del mio bisnonno fiaccheraio che aveva catturato una strega che si annidava nei crini del cavallo. Le zie senza saperlo caldeggiavano un’immagine protofemminista, assolutamente positiva, di una maga che all’avo annunciò una fortuna per tante generazioni. Ne sto beneficiando anche io ma con mio figlio che ha solo 4 anni ora siamo arrivati, secondo la predizione, al capolinea, al momento in cui la magia avrà esaurito tutta la sua efficacia».