ANGELO GUGLIELMI, La Stampa 19/3/2011, 19 marzo 2011
Non è la fiction che fa il canone - Aldo Grasso ha scritto che io ho fatto una televisione interessante perché non capisco niente di televisione
Non è la fiction che fa il canone - Aldo Grasso ha scritto che io ho fatto una televisione interessante perché non capisco niente di televisione. E chissà che non abbia ragione. Fare televisione certo ha bisogno di regole ma condivide con altre forme di scrittura la sfida del mistero. E il lucidissimo Grasso (tanto lucido da non elemosinare critiche dotte al suo stesso mestiere) non tollera sfumature e zone d’ombra (poco curioso di quel che nascondono). Lui è rigoroso, il suo è un discorso conseguente condannato a conclusione inevitabili. Il critico non sgarra. Se no che critico è? Il guaio è che una volta indovinato il bersaglio è troppo sicuro di avere fatto centro. Per esempio è certamente vero che la fiction è il genere televisivo che fortemente o forse meglio caratterizza il mezzo (nonostante il debito che ha con il cinema) e che le serie americane prodotte da Hbo sono pregevoli esempi di buon raccontare ma che «rappresentino la buona letteratura dei nostri giorni» e, come si legge più oltre, «una perfezione narrativa non facilmente riscontrabile al cinema e in letteratura» è amare troppo smodatamente la propria specificità. Non gli viene nemmeno in mente che letteratura e cinema non sono i tanti Zalone e Moccia che invadono librerie e cinematografi, rispetto ai quali I Soprano potrebbero anche vincere la sfida, ma è quella tutt’altra produzione (ed è a questa che ci si riferisce quando si parla senza altre specificazione di letteratura e di cinema) che ha in sommo sospetto(e rifiuta) tra le sue regole la gerarchia dei «valori», la perfezione formale e la ricerca dell’emozione che sono tanta parte, secondo Grasso, della qualità del telefilm americano. Grasso è un critico severo, non ha rivali nella conoscenza della televisione e, a garanzia della sua coerenza, estende l’indagine alla totalità dei suoi aspetti (tecnico, storico, industriale, culturale) perché nessuna trascuratezza possa inficiare il discorso complessivo. La Come sta cambiando la tv : una ricerca che prende in esame la «convergenza» (e la competizione) in atto tra piccolo schermo e nuovi media («fare i conti con la rete e con utenti sempre più smaliziati»). Tre i concetti chiave: estensione (le diverse ramificazioni di ogni prodotto), accesso (mezzi e tempi del consumo) e brand (il marchio, la firma in sé garanzia di valore). Contributi in cui si incrociano teoria e analisi di singoli programmi, con particolare riferimento alla fiction e all’intrattrenimento. sua analisi è indubbiamente convincente: non fa posto alle facili condanne che pur così comunemente vengono rivolte alla televisione italiana ma di questa riconosce la difficile problematicità; ne vede i meriti reali (il ruolo nella conquista di una lingua comune) e non ne nasconde i pesanti condizionamenti per la libertà dei comportamenti e pensieri; sa leggerne l’attuale sviluppo e non rinuncia a indicare il possibile futuro. Al termine del bilancio i conti tornano. Ma per fare tornare i conti, si sa, qualche forzatura occorre farla. Soprattutto quando l’estensore, chiamato a mettere ordine a una materia sfuggente (come è l’offerta televisiva), è costretto a ricorrere oltre che all’ intelligenza al gusto. E se già intelligenza è uno strumento da usare con cautela (guai a esibirla), figuriamoci il gusto che è totalmente ingestibile, autoritario e non sente ragioni. A Grasso non piace il talkshow e lo ritiene responsabile dell’attuale andazzo della televisione italiana ormai annegata per intero nella chiacchiera: vai a dirgli che quando a metà degli Anni Settanta nacque Bontà loro , l’antesignano del genere, il nostro proposito era all’opposto di rivalorizzare la parola (fin lì sacrificata a ogni forma di opportunismi e convenienze) quale strumento di più antica e autentica comunicazione. A Grasso non piace (e come dargli torto) il reality e sostiene che alla sua origine è la televisione-verità o realtà di Rai3 degli ultimi Anni Ottanta: vai a dirgli che forse è vero purché si riconosca che se la televisione-verità puntava l’occhio della telecamera sulla realtà politico sociale del Paese, il reality quell’occhio lo punta sulle camere da letto (spazio obbligatoriamente destinato alla riservatezza). A Grasso non piacciono (e certo a ragione) i telegiornali perché poveri di notizie e politicizzati: ma vai a dirgli che i talk-show informativi (o settimanali) nascono proprio per correggere il pressappochismo e le bugie dei telegiornali. Certo poi alcuni finiscono per ricaderci dentro come Porta a porta - che è l’unico che Grasso pur con sofferenza ricorda e nemmeno una parola non solo per Anno zero eReporter ma nemmeno per Fazio e Ballarò . Ammirevole è l’intelligenza critica di Grasso finché impegnata a disegnare il funzionamento della televisione, presentata come un meccanismo vivo che mentre sembra sempre sul punto di cedere a nuove invenzioni tecnologiche (computer, telefonini, satellite, digitale ecc) di queste si impossessa moltiplicando la sua potenza; perplessità suscitano i suoi giudizi sui singoli programmi, vittime di analisi stilistiche anche acute ma piegate dallo spirito beffardo e malavoglioso dell’autore. So che difendendo i programmi e vedi caso proprio quelli che mi coinvolgono, vado incontro all’accusa di conflitto di interessi. Ma saprò di fendermi.