GIUSEPPE SALVAGGIULO, La Stampa 19/3/2011, 19 marzo 2011
Soffiantini, troppe verità per il poliziotto ucciso - A margine del lungo catalogo dei misteri italiani privi di una verità giudiziaria anche a distanza di decenni, ce n’è uno speciale, la morte del poliziotto Samuele Donatoni, nel 1997, durante il blitz fallito contro i rapitori dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini
Soffiantini, troppe verità per il poliziotto ucciso - A margine del lungo catalogo dei misteri italiani privi di una verità giudiziaria anche a distanza di decenni, ce n’è uno speciale, la morte del poliziotto Samuele Donatoni, nel 1997, durante il blitz fallito contro i rapitori dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini. Speciale perché ha conosciuto non solo una verità giudiziaria, ma due. Entrambe vagliate da decine di giudici e cristallizzate in sentenze definitive. Il problema è che le due verità sono inconciliabili: una condanna per omicidio i banditi, l’altra li assolve attribuendo la morte di Donatoni a «fuoco amico». Il mistero è proprio in questa contraddizione e presto potrebbe arricchirsi di un’inaspettata appendice: gli avvocati dei sequestratori stanno per depositare una richiesta di revisione del primo processo, quello concluso con le condanne di tre rapitori. L’accoglimento dell’istanza farebbe riaprire il caso, mettendo in luce anche aspetti oscuri intorno al sequestro di Soffiantini, che quattro mesi dopo il tragico blitz fu risolto con un «pagamento controllato» del riscatto, primo caso di autorizzazione della Procura a derogare al blocco dei beni dei familiari del sequestrato. Doppia ricostruzione Samuele Donatoni aveva 32 anni, era un bravissimo ispettore di polizia e faceva il caposcorta di Giancarlo Caselli a Palermo, quando partecipò all’operazione per arrestare i sequestratori dell’industriale bresciano Soffiantini. Ma la sera del 17 ottobre 1997, nella campagna abruzzese, la trappola fallisce: i banditi si accorgono che al posto di emissari con il riscatto ci sono poliziotti e sparano. Dopo venti minuti di conflitto a fuoco, riescono a fuggire, superando tre cordoni e centinaia di agenti, mentre Donatoni viene trovato morto. Ucciso dal kalashnikov di un bandito, secondo la sentenza della Corte d’assise di Roma, scritta nel 2000 da giudice Giancarlo De Cataldo, che condanna tre rapitori. Ne resta un altro, Giovanni Farina, estradato dall’Australia troppo tardi per partecipare al processo. Per questo se ne fa un altro, destinato a «copiare» la prima sentenza. A questo punto accade l’imprevedibile, raccontato ora dal presidente della seconda corte, Mario Almerighi, nel libro «Mistero di Stato» (Aliberti editore). I nuovi giudici si accorgono che qualcosa non torna: com’è possibile che il poliziotto sia stato colpito dal rapitore che gli stava di fronte, se il proiettile letale proviene da dietro e da sinistra? Come mai il suo corpo viene trovato solo un quarto d’ora dopo la sparatoria? Perché ci sono macchie di sangue distanti? Almerighi dispone un’altra perizia. Come racconta nel libro, a indurlo al dubbio è anche la testimonianza di Nicola Calipari, poi passato al Sismi e ammazzato da un agente americano in Iraq, dopo aver liberato Giuliana Sgrena. «Come Donatoni, “fuoco amico”. Due vite parallele al servizio dello Stato accomunate nello stesso destino», scrive Almerighi. I periti (e la sentenza, confermata dalla Cassazione) ribaltano la ricostruzione del primo verdetto assolvendo Farina: chi sparò a Donatoni si trovava a meno di un metro di distanza, in basso e arretrato rispetto alla vittima. Inoltre il proiettile non era quello di un mitra imbracciato dai banditi sardi, ma di una pistola calibro 9, compatibile con l’arma in dotazione alla polizia. Infine, il corpo di Donatoni, che morì dissanguato, fu spostato per cento metri. Primo di «una complessiva attività di depistaggio e d’inquinamento probatorio» (pistole rottamate, tracce di sangue distrutte senza analisi, false testimonianze sulla dinamica, vernice messa sui vestiti di Donatoni) meritevole di un’indagine, mai decollata. Il nuovo capitolo Fin qui la complicata storia dei processi. Che ora ricomincia. Giuseppe Luigi Cucca, avvocato di Osvaldo Broccoli (uno dei rapitori condannato a 25 anni per omicidio) depositerà nei prossimi giorni alla Corte d’appello di Roma la richiesta di «totale riforma» di «una sentenza ingiusta e gravatoria». Ugo Colonna, avvocato di un altro rapitore (Giorgio Sergio, stessa pena) è pronto a fare altrettanto, ma sta valutando con il suo assistito, nel frattempo uscito dal carcere in quanto collaboratore di giustizia, l’opportunità di tale iniziativa. La revisione interviene su sentenze definitive. Perciò il codice la prevede in casi limitati e tassativi. Per esempio «se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile». L’istanza dell’avvocato si basa proprio sull’inconciliabilità delle due sentenze sul caso Donatoni. E poi? Se anche le prime condanne dei banditi fossero cancellate, resterebbeda capire chi ha davvero ucciso Donatoni e chi ha fatto in modo che non si scoprisse. Nel libro (in gran parte documentazione processuale, con spruzzi di fiction), Almerighi adombra sospetti, insinua ipotesi suggestive, apre piste inquietanti. Poi si ferma: questa è materia per una nuova indagine. Ma conclude con un fatto. Tutti i poliziotti impegnati nel blitz di Riofreddo sono stati promossi. Tranne tre.