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 2011  marzo 19 Sabato calendario

L’AZIONE PENALE IN ITALIA OBBLIGATORIAMAFACOLTATIVA

Quando si dibatte sul principio dell’ «obbligatorietà dell’azione penale» spesso ci si chiede, e non per ultimo lo ha fatto Pierluigi Battista in un editoriale, quanto questa regola venga effettivamente osservata nelle procure. A questo genere di ragionamento verrebbe facile rispondere con un’altra domanda: quanti sono i principi costituzionali che vengono effettivamente osservati? Sarebbe interessante che lei entrasse nel merito del principio dell’ «obbligatorietà» e ci spiegasse perché sia utile toglierlo dai principi che, a mio avviso, sono alla base dell’indipendenza della giustizia da ogni tipo di potere. Massimo Megale Sora (Fr) Caro Megale, R icordo che le parole esatte utilizzate nell’art. 112 della Carta sono: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale» . I costituenti volevano che il magistrato dell’accusa avesse nella costituzione lo strumento che gli avrebbe permesso di sottrarsi alle eventuali pressioni del potere esecutivo, e intendevano evitare qualsiasi discriminazione fra cittadini perseguibili e non perseguibili. Letto alla luce delle intenzioni di chi lo scrisse, l’art. 112 è sacrosanto. Ma i costituenti non potevano immaginare che quell’articolo, in altre circostanze storiche, avrebbe prodotto, paradossalmente, risultati opposti a quelli desiderati. Volevano impedire l’uso discrezionale dell’azione penale e la loro norma ha finito per consegnare nelle mani dei procuratori il diritto di scegliere quali delitti perseguire immediatamente e quali abbandonare alla falce inesorabile della prescrizione. I criteri della scelta cambiano naturalmente da persona a persona. In alcuni casi il procuratore è sollecitato ad agire dalle proprie convinzioni politiche morali, in altri dall’attenzione popolare per una particolare vicenda, in altri ancora dal piacere di essere protagonista di un caso che lo renderà per qualche tempo un personaggio nazionale. Non ne sono né sorpreso né scandalizzato. Ma osservo che il procuratore è un pubblico ufficiale e che la promozione alla fine di un concorso non lo rende moralmente e qualitativamente diverso da un qualsiasi altro funzionario dello Stato. E aggiungo che vi sono state circostanze, durante gli ultimi vent’anni, in cui l’agenda politica del Paese è stata scritta dalle scelte discrezionali della magistratura inquirente di alcune procure nazionali. Non credo che si possa continuare a definire obbligatorio ciò che in realtà è soltanto discrezionale. È possibile trovare un rimedio a questa situazione? La formula adottata nella proposta del governo (una norma d’indirizzo, ogni anno, sui reati a cui dedicare un maggiore impegno) mi sembra sbagliata, poco applicabile e per di più destinata creare un sentimento d’impunità fra coloro che commettono reati «minori» . La separazione delle carriere invece può contribuire alla soluzione del problema. Il procuratore continuerà a scegliere le azioni penali da perseguire, ma la discrezionalità ne risulterà depotenziata. Se l’ordine giudiziario accetta il principio della separazione gli sarà più facile opporsi a quelle parti della riforma che possono avere ricadute negative sulle sue funzioni.