Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 19/3/2011, 19 marzo 2011
SIGONELLA, AVIANO, GIOIA DEL COLLE QUEI LUOGHI SIMBOLO TRA ORGOGLIO E MISTERI
Diceva Mussolini che l’Italia non ha bisogno di portaerei perché è lei stessa una portaerei. Gli americani (per nostra fortuna) lo sconfissero, e lo presero in parola, trasformando l’Italia nella loro portaerei protesa verso il Sud e l’Est del Mediterraneo, e scrivendo una delle pagine più contrastate della nostra guerra fredda. Attorno alle basi Usa nacquero leggende nere e prosperarono affari. Si combatterono battaglie ideologiche in odio e in nome dell’atlantismo. Dopo la notte di Sigonella, i comunisti si levarono in piedi alla Camera ad applaudire Craxi per la prima e ultima volta, e Giovanni Spadolini si dimise da ministro della Difesa. Da Gioia del Colle partivano i Tornado italiani per bombardare i serbi durante la guerra del Kosovo. Taranto evoca la notte più dura della Marina, l’attacco di sorpresa dell’ammiraglio Cunningham, nella lunga notte del ‘ 40. Ora i nomi di queste basi tornano nella discussione pubblica come possibili punti di partenza delle incursioni contro Gheddafi. Ed evocano aneddoti autentici e leggende metropolitane da sfatare. Non è vero, ad esempio, che le basi americane in Italia siano 89, come spesso affermano i nemici dell’ «imperialismo» . Sono 89 le installazioni, dagli impianti di telecomunicazione di Cima Gallina (Bolzano) all’antenna per la navigazione di Lampedusa. Il grosso delle armi e degli uomini è concentrato in sei basi. Gaeta, dov’è storicamente attraccata l’ammiraglia della Sesta Flotta. Napoli, che ospita il comando logistico nel solco della tradizione del dopoguerra, il tempo della «tammuriata nera» e degli amori multietnici. Aviano, con il mistero delle sue testate nucleari (probabilmente una cinquantina) al sicuro in un bunker, e con il terribile ricordo del pilota che recise la funivia del Cermis provocando una strage impunita. Camp Darby in Toscana, negli Anni Settanta bersaglio preferito dei giovani ribelli di Pisa e teatro di scontri anche duri, replicati dai Disobbedienti di Casarini che tentarono di bloccare la partenza di armi per l’Iraq. Camp Ederle a Vicenza, la base della discordia: buona parte della città è ostile al raddoppio, tranne chi lavora nel piccolo sistema economico sorto attorno agli americani; i 744 dipendenti, le aziende che forniscono i servizi di scuolabus, pulizie, vigilanza, e anche i negozi specializzati nel rivendere tute mimetiche dismesse a cacciatori, pescatori e appassionati di giochi di guerra, oltre ai gestori dei venti topless bar della zona (è stata istituita una pattuglia che fa la ronda tra i locali, porta via gli ubriachi e il giorno dopo passa a saldare il conto). La sesta base è appunto Sigonella. Permolti italiani è ancora sinonimo di orgoglio nazionale. Craxi che affronta Reagan nella notte. Il colonnello Ercolano Annichiarico che fronteggia duecento marines con i suoi trenta avieri spaventati. L’arrivo dei carabinieri. Purtroppo, anche la fuga degli assas- sini di Leon Klinghoffer. Ma oggi Sigonella è uno degli avamposti della tecnologia di guerra americana nel pianeta. Nella base siciliana dovrebbe entrare in funzione nel 2012 l’Alliance Ground Surveillance, il grande occhio elettronico della Nato, con otto Global Hawks, i falchi globali che volano sino a ventimila metri d’altezza: droni di ultima generazione, che senza rischiare vite umane garantiscono il lavoro che l’aereo-spia U2, simbolo della guerra fredda, faceva con tre piloti e dieci velivoli di appoggio. Forme di neocolonialismo o fonte di affari, simbolo di sottomissione o segno di importanza strategica, le basi americane in Italia rappresentano per numeri e armamenti una frazione di quelle in Germania o in Giappone, ma sono destinate a sopravvivere alla guerra fredda. Se l’attenzione alla cortina di ferro è calata (anche se la Russia di Putin induce a tenere alta la guardia), sono il Medio Oriente e l’Africa i nuovi obiettivi. La strategia del Pentagono è di mantenere meno basi ma renderle più grandi e confortevoli: l’Italia è una retroguardia meno insicura e scomoda rispetto al Caucaso e al Golfo Persico; a Vicenza si sta meglio che a Incirlik. La tradizione è antica: alla Maddalena, sino a tre anni fa casa dei sommergibili nucleari del Mediterraneo, la prima nave dalla bandiera a stelle e strisce ancorò nel 1822, dopo aver chiesto il permesso al luogotenente dei Savoia, in una pausa della campagna contro i pirati di Algeri. La distinzione tra basi Usa e basi Nato è un falso mito. Come ha spiegato sulla rivista Limes l’esperto di geostrategia Alfonso Desiderio, la Nato non dispone di basi proprie, se non per i quartier generali (in Italia è rimasto solo quello di Napoli), alcune installazioni radar e istituzioni come il Nato Defense College a Roma. L’Alleanza atlantica usa le basi, i mezzi e le truppe che i Paesi membri le mettono a disposizione. In teoria tutte le basi italiane possono servire all’Alleanza e quindi essere considerate basi Nato. Durante la guerra del Kosovo ne furono coinvolte dodici. Ora dovrebbe toccare a Gioia del Colle, da dove nel 1999 decollavano verso Belgrado i 24 Tornado comprati in leasing dagli inglesi (al suono della sirena i piloti avevano 300 secondi per decollare), e Taranto. Un nome che evoca la notte dell’ 11 novembre 1940: la Conte di Cavour centrata da un siluro britannico, la Littorio e la Duilio in fiamme, l’oscurità illuminata dai roghi dei depositi di carburante. I giapponesi studiarono quell’attacco e lo riprodussero a Pearl Harbor. Dopo la guerra la base rinacque, e a lungo il personaggio più popolare di Taranto fu il matto che, quando il ponte girevole si apriva per far passare una nave da guerra, si divertiva a saltare da una parte all’altra. Nel 2004 sono finiti i lavori che ne hanno fatto una delle più grandi basi navali del Mediterraneo. Pochi mesi prima, vi avevano trovato rifugio alcune navi straniere, di un Paese allora amico. Battevano bandiera libica.