Vittorio Volpi, Libero 19/3/2011, 19 marzo 2011
I TRE SEGRETI DEI GIAPPONESI
PER FERMARE LA CATASTROFE
“Il miracolo giapponese non è finito”: così titolava il Financial Times di ieri sulla base del diffuso senso di sorpresa che noi occidentali riscontriamo nel vedere, via media, la reazione calma e dignitosa dei giapponesi alla immane tragedia che li ha colpiti. Sembra un miracolo che continua quello che è avvenuto per anni nell’economia. Soprattutto se si tenta di immaginare cosa sarebbe successo da noi in una simile situazione. Rimaniamo stupiti e ci domandiamo: come mai, perchè?
La risposta a questi interrogativi è abbastanza semplice: la parola “cultura”, “ha un plurale”. La bellezza del mondo è e consiste anche nel fatto che esistono tante diverse culture; e tutte sono valide e belle. Il problema è che spesso è difficile, per molti, accettare questa pluralità con la conseguenza di tendenza a considerare la propria cultura come l’unico metro di misura del mondo: e ciò è la causa di molti dei nostri problemi in questo “pianeta di naufraghi”.
Ieri mattina ho visto alla CNN una signora davanti ad una salma ed un signore della protezione civile che l’aveva portata ad identificarla. La signora giapponese, sguardo vuoto senza lacrime – aveva già scontato il dramma – mormora: «Kakunin shimasta; arigato gozaimasu» («Ho potuto verificare, grazie molte»). La cosa mi ha pizzicato il cuore: che dignità, che compostezza. E mi sono domandato, avrei potuto comportarmi allo stesso modo nella stessa situazione?
IL NOSTRO RUOLO
In realtà la cultura è il modo attraverso il quale gli uomini interpretano il mondo; non è un oggetto esterno di curiosità. Ne consegue che tutti noi dobbiamo quindi fare uno sforzo per capire i giapponesi nella loro cultura, il contesto e le motivazioni. Da noi, mondo dell’individuo, si specula, si cerca subito di creare un caso, di argomentare, di portare i fatti a nostro vantaggio. Nel mondo del “collettivo” invece il fuoco dell’attenzione è il contesto e il nostro ruolo nel collettivo. Si presta molta attenzione a non danneggiare gli altri e si fa il massimo sforzo per essere in armonia con loro. La morale comune, quella che vuole il gruppo, la collettività ci giudicano. Non una legge astratta che a priori codifica che cos’è il bene o il male, il buono o il cattivo.
Non bisogna quindi perdere di vista che l’unità di misura nella società è il gruppo, il collettivo e non l’individuo. L’essere troppo individuo, individualista, non è visto con favore nella società; non
postula il proverbio giapponese “Il chiodo che protrude va’ ribattuto”?... È il collettivo che ti giudica, con la sua morale conformista, nei tuoi comportamenti mettendoti all’indice se non ti comporti come dovresti. Se non rispetti la fila per rifornirti di acqua, fai un danno alla collettività e quindi ti squalifichi agli occhi di tutti.
ARCIPELAGO ISOLATO
Alla base dei comportamenti che abbiamo visto in questi giorni quindi, si nota una base culturale che si è sviluppata e consolidata nei tremila anni di storia giapponese di cui abbiamo conoscenza, in un arcipelago isolato dal continente, situazione che ha contribuito a plasmare e consolidare un modo di concepire la vita e di comportarsi difformi dai nostri. Le conseguenze di un vivere collettivo, rafforzato dall’isolamento e dalla cultura del riso che costringe al dialogo, al compromesso per poter ottenere l’acqua e quindi
per sopravvivere, hanno consolidato comportamenti molto più da gruppo che da individui. Personalmente non ho mai vissuto in una società così fortemente gruppistica come in Giappone.
La base culturale spiega molto: ma molto altro, per comprendere, lo aggiungono altri fattori. La scuola dell’obbligo in Giappone è stata una delle prime decisioni nel 19esimo secolo dopo la “restaurazione Meiji”. Oggi la quasi totalità della popolazione legge e scrive la sua lingua: assicuro, avendoci perso la testa per impararla – mettere nella testa 2.000 ideogrammi di base per proseguire non è cosa facile. Cio ha reso in questo ultimi giorni le comunicazioni più facili. In tutto l’arcipelago, lungo più di 3 mila chilometri si parla la stessa lingua. E, coscienti dei pericoli, i giapponesi si sono attrezzati per comunicare in tempo reale in ogni angolo del paese. Una signora di 83 anni a Miyagi ha sentito l’allarme via radio; è uscita di casa, ha inforcato la sua bicicletta e si è salvata. Poi, importante, i giapponesi convivono con le avversità: quando avvertono i terremoti, quando affrontano gli tsunami, parola di origine giapponese, ed i tifoni, hanno, come noi, paura; ma non si scompongono. Da tempi immemori conoscono queste avversità vivendo in un arcipelago ballerino e vulcanico; al punto che queste disavventure sono entrate
nel loro “dna”, fanno parte del loro codice genetico. La reazione ad un dramma è un “gaman suru”, teniamo duro. Non disse così l’Imperatore Hirohito nell’agosto del ’45 nel suo messaggio criptico ai giapponesi (criptico perché parlando un linguaggio aulico, da imperatore appunto, pochi lo capirono): «Cari giapponesi dovrete sopportare l’insopportabile».
Suo figlio, ieri, in un messaggio
straordinario al suo popolo, ha raccomandato di «non perdere la speranza». Sopportare l’insopportabile e sperare in un futuro migliore. Non solo però aspettare: anche fare. Qui è l’anima dei giapponesi. Accettare i verdetti della natura che non è, come nel mondo giudeo-cristiano, il nemico da controllare ma solo il contesto cui noi, uomini, apparteniamo. Sopportarne le conseguenze con dignità, riconoscere i propri morti con serenità, aiutare i feriti ed i vecchi, fare la fila con pazienza per raccogliere l’acqua ed aspettare il tempo in cui si possa ricostruire più e meglio di prima con gioia e serenità. Questi sono i piccolo, semplici “segreti” dei giapponesi. Mia mamma non era una esperta di Giappone; mi fece visita durante i miei trent’anni di vita a Tokyo e nella sua semplicità e umiltà, parlava in dialetto con me, e sui giapponesi mi disse, in meneghino: «Se contente d’un bel nigutin dor». Si accontentano di poco. Sono umili e dignitosi. Per questo sono sicuro, e sono veramente certo di non essere smentito, che fra due o tre anni, i nostri amici del Sol Levante avranno riguadagnato, con interessi, tutto il terreno perduto. Nonostante le molte riprese televisive, una nota di cautela. C’è una forte tendenza da noi, anziché pregare per i giapponesi e pensare cosa possiamo fare per aiutarli (la mia prossima auto sarà una ibrida Made in Japan) ad amplificare, per fare effetto, il disastro; salvo speculare sul grave problema nucleare per sostenere una tesi o l’altra. In realtà, essendo in contatto quotidiano con amici giapponesi a Tokyo, tranne che nel Tohoku devastato dallo tsunami più che dal terremoto, la vita ha ripreso la sua normalità, perlomeno apparente, poichè il problema nucleare non consente certo distrazioni.
Black out energetici o tagli programmati di corrente elettrica sono inevitabili. Il traffico automobilistico è fortemente ridotto. L’uso di energia è ridotto ai minimi termini. Molti dipendenti di aziende hanno dormito in ufficio nei giorni cruciali; impossibile rincasare, ma anche per aiutare le proprie comunità – le imprese – nelle avversità. Un invito anche per noi ad accettare i resoconti con qualche “grano di sale” scontando gli inevitabili strafalcioni o malintesi che la non conoscenza di molti commentatori ci propina. Peraltro i giapponesi credono in un famoso proverbio che più o meno suona così: «Piega la sventura sì da farla diventare una tua felicità».