Fabrizio Dragosei, Corriere della Sera 19/3/2011, 19 marzo 2011
Nella terra dell’incidente che cancellò tutto crescono gli alberi in casa - Pyotr Yaroshenko ricorda bene quando vide per la prima volta i poliziotti che giravano con le maschere antigas
Nella terra dell’incidente che cancellò tutto crescono gli alberi in casa - Pyotr Yaroshenko ricorda bene quando vide per la prima volta i poliziotti che giravano con le maschere antigas. «Ci dissero che era una esercitazione e noi non ci pensammo su due volte» . In realtà, come l’ingegnere elettronico scoprì solo dopo, a pochi chilometri di distanza dalla cittadina di Pripyat era scoppiato il reattore numero quattro della centrale Vladimir Lenin di Chernobyl. E la radioattività aveva già iniziato ad uccidere silenziosamente. L’area attorno alla centrale per un raggio di 30 chilometri è ancora ufficialmente chiusa, si chiama «zona di esclusione» . Ma la nonna di Pyotr, Tamara, è tornata a viverci da un pezzo come migliaia di altri ucraini, in gran parte pensionati, che non hanno resistito allo spostamento in città. Nel villaggio di Illintsi, a 15 chilometri dalla centrale, la sua unica preoccupazione è quella di tener lontani i cinghiali dalle sue patate. La natura ha avuto la sua rivincita e i 3.500 chilometri quadrati interdetti sono diventati un’oasi naturalistica. «Non solo cinghiali, ma anche cervi, alci, lupi, e perfino orsi» , racconta Pyotr. E dire che quel 26 aprile del 1986 Prypiat si preparava a festeggiare in grande stile il primo maggio. Era una cittadina fortunata, con una bella piscina olimpionica, negozi relativamente ben forniti, e un lindo ospedale. Sei giorni dopo nel luna park sarebbe stata inaugurata una grande ruota panoramica con una splendida vista sul fiume. All’una di notte (per l’esattezza all’ 1: 23: 45) un maledetto esperimento per controllare i sistemi di sicurezza del quarto reattore era andato male, scatenando la catastrofe. Nulla funzionò a dovere in quelle ore. Perfino i rilevatori di radioattività risultarono sbagliati: non erano tarati per simili dosi. Così i tecnici pensavano di aver la situazione sotto controllo, mentre invece i contatori della centrale nucleare di Forsmark in Svezia, a 1.500 chilometri di distanza, impazzivano. Gli svedesi dapprima pensarono a un qualche problema nella loro centrale. Invece erano gli effetti di Chernobyl che già si facevano sentire a meno di 24 ore dal disastro. «Non capisco che diavolo sia successo; noi abbiamo fatto tutto secondo le procedure previste» , disse sgomento nei giorni seguenti Aleksandr Akimov, l’ingegnere capo responsabile del quarto reattore. Quando aveva avuto notizia dell’esplosione, si era precipitato nella sala controllo con la sua squadra: le radiazioni erano cinquemila volte superiori a quello che dicevano gli strumenti. A metà maggio Akimov era già morto. Trentasei ore dopo il disastro iniziarono ad evacuare circa duecentomila persone che abitavano vicino alla centrale. «Vedevamo centinaia di camion e di mezzi militari che andavano verso Chernobyl» , è ancora il racconto di Pyotr. «E la cosa che ci colpiva di più è che molti erano armati fino ai denti, come se ci fosse da respingere un’invasione» . Nessuno sapeva nulla. Vladimir Pravik, tenente dei pompieri, arrivò con la sua squadra: «Sembra che ci sia stato un corto circuito» . Il 9 maggio era già morto. Affluirono centinaia di migliaia, di soldati e civili, i famosi «liquidatori» . Vladimir Shevchenko accorse da Kiev per girare un filmato. Salì sul tetto del reattore per documentare il lavoro degli «ecorobot» . Coperti da rudimentali protezioni, rimanevano esposti per due minuti: dovevano sollevare pesanti lastre di grafite e gettarle di sotto, dove il reattore non si spegneva. In realtà, al massimo avrebbero potuto sopportare esposizioni di 40 secondi, ma nessuno disse nulla. Shevchenko riprese anche l’elicottero che precipitò mentre volava proprio sopra la voragine. Anche il cineasta, protetto da una semplice mascherina di garza, se ne andò dopo poco. Nessuno è stato in grado di fornire dati precisi sul numero dei morti e degli ammalati, anche perché lo scioglimento dell’Urss ha reso tutto più complicato. Le vittime dirette furono una cinquantina, ma poi ci sono tutti gli altri. I liquidatori che dopo tornarono a casa, nelle varie repubbliche sovietiche. Gli abitanti, i bambini. Un rapporto internazionale si ferma a quattromila vittime. Altre fonti vanno oltre: centinaia di migliaia, forse un milione. Basti pensare che almeno 600 mila persone lavorarono negli anni seguenti attorno alla centrale. A bonificare e a costruire il sarcofago, la gigantesca copertura in cemento armato che ha incapsulato il reattore numero quattro. Adesso è pieno di crepe e se ne sta costruendo un altro ancora più grande che dovrebbe durare cento anni. Pripyat è una città fantasma, nella quale la natura sta riguadagnando terreno. «Sono tornato a casa mia e al piano terra un albero è cresciuto nel soggiorno» , ricorda con tristezza Pyotr. Tutto è verdissimo nella zona di esclusione e i fiumi sono pieni di pesci giganteschi. Oltre alla nonna di Pyotr, tanti altri abitano a Chernobyl e nei vari villaggi ufficialmente evacuati. «Il governo ha cercato di farci sloggiare all’inizio, ma poi ha rinunciato» , dice Ivan, un vicino di casa della nonna di Pyotr. Lui ha ancora una Zhigulì del 1985. «Non ho né l’assicurazione né il certificato della revisione; ma tanto la polizia qui non viene» . Alcune case hanno l’elettricità e una volta al mese da Kiev vengono a pagare in contanti le pensioni. A Pripyat tutto cade a pezzi, compresa la ruota panoramica. «Il 27 aprile, quando in Svezia già erano preoccupatissimi, le autorità aprirono in anticipo la ruota e noi ragazzi ci affollammo per fare il primo giro» , racconta Pyotr. L’ennesimo tentativo di far credere che tutto era normale.