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 2011  marzo 15 Martedì calendario

IL CONTO DELL’UNITÀ PAGATO DAI «POLENTONI»

Fatta l’Italia, bisognava saldare i conti. E indovinate a chi è toccato pagarli? Al Nord, ovvio. Come e quanto lo racconta Lorenzo Del Boca nel libro Polentoni (Piemme, pp. 198, euro 16,5), dedicato ai settentrionali che si nutrivano soprattutto di polenta e sono diventati emblema della contrapposizione fra Nord e Sud. Sotto i terroni, sopra i polentoni, a loro volta frammentati in tante realtà locali.
In vista delle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’unità, giornalisti e storici “meridionalisti” hanno dato fuoco alle polveri, sostenendo che la patria è stata cementata danneggiando soprattutto le loro terre. Una sorte non molto diversa, sostiene Del Boca, hanno subìto lombardi, veneti et similia. Prima, hanno dovuto sopportare l’invadenza savoiarda a forza di tasse, leggi raffazzonate, burocrazia raccomandata. In una parola, il malgoverno che così ben caratterizza il Paese unito. Non bastasse, i polentoni hanno dovuto scontare i torti del Sud, sobbarcandosi i costi mostruosi dell’inefficienza meridionale. Non c’è molto da stupirsi, quindi, se oggi un’ampia fetta della popolazione non sprizza entusiasmo all’idea di festeggiare i 150 anni. Polentoni sintetizza molte delle motivazioni che spingono partiti come la Lega ad essere scettici riguardo alle celebrazioni.
Non staremo a elencare troppi dati e nomi, bastano poche ma significative cifre. Per esempio quelle riguardanti il debito pubblico, da sempre spada di damocle della nostra nazione. Lo accumulò soprattutto il Piemonte, dal 1848 in poi. Come? Grazie alle sue mire espansionistiche, con le guerre di indipendenza e le varie operazioni militari.
Scrive Del Boca: «Nei dodici anni successivi al 1848 [...] il deficit superò il miliardo: 1.024.970.595 lire piemontesi (di allora)». E via di questo passo negli anni seguenti. Cavour continuava a indebitarsi, stipulando accordi che prevedevano interessi altissimi da restituire.
«Quando si fecero i conti, il ministro del Tesoro, Pietro Bastogi, rivelò che il buco nel bilancio era arrivato a 2 miliardi e 402 milioni. Il debito del Piemonte rappresentava il 55 per cento del totale ed era formato soprattutto dagli impegni finanziari contratti per fare l’Italia». Non solo: «La spesa pubblica corrente toccava i 900 milioni e un peso rilevante era dato dagli investimenti per gli armamenti e il mantenimento dell’esercito». All’epoca della presa di Roma, «i 2 miliardi e mezzo» di debito pubblico «erano diventati 9».
Direte: che c’entra il Mezzogiorno, qui la colpa e dei notabili di Torino. Vero. Ma i buchi di bilancio sono stati risanati dal Nord. Sulle prime, infatti, per fare cassa si decise di saccheggiare i beni della Chiesa. Poi, spiega Del Boca, si aumentarono le tasse. In Veneto, per dirne una, «con l’arrivo dell’Italia l’economia fu distrutta e una burocrazia onnivora e dispettosa rovinò la vita di agricoltori e piccoli imprenditori. Al governo asburgico pagavano undici lire, a quello italiano-sabaudo trentuno». I balzelli sarebbe toccato pagarli anche al Sud, ma gli abitanti evadevano le tasse «senza darsi troppo pensiero, i veneti e il Nord dovevano pagare...e pagavano».
Popoli come quello lombardo, che si erano impegnati a cacciare gli austriaci sperando in un’Italia federale, si trovarono preda della burocrazia piemontese. Nel 1861, per ricevere un telegramma ci volevano dieci giorni. Non c’era che una differenza tra il versare le imposte a Vienna (chi scese in piazza durante le Cinque giornate di Milano la considerava “ladrona”) e il regalarle a Torino: l’Austria garantiva servizi efficienti, il governo sabaudo no. Questa è la prima fregatura per il Nord: aspettarsi uno stato federale, che l’avrebbe liberato dall’oppressore straniero per renderlo autonomo e ritrovarsi invece una specie di succursale savoiarda, con Cavour che estendeva a macchia d’olio le leggi piemontesi in Lombardia e altrove, sperperando denari che il Settentrione avrebbe dovuto rifondere poi (anche oggi).
In seconda battuta entra in campo direttamente il Sud. Proclamata la Repubblica Italiana, il meridione continuò a pretendere di essere risarcito. Dunque via con la costituzione della Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse per il Mezzogiorno. Dice Del Boca: «I 1000 miliardi di dotazione iniziale, anticipati dalla Banca d’Italia, diventarono 9000 dal 1961 al 1971. Altri 7.400, stanziati il 6 ottobre del 1972, portarono il patrimonio a 16.400 miliardi». Da allora, proseguendo di spreco in spreco, di opera mai realizzata in opera mai realizzata, siamo arrivati all’odierna situazione, denunciata tra gli altri da uno studioso autorevole come Luca Ricolfi nel saggio Il sacco del Nord: il Settentrione paga le mancanze altrui. Staccando un assegno annuo che Del Boca colloca tra i 50 e i 56 miliardi di euro. Conclusione: «Il Risorgimento è stato per il Nord un danno più pesante di una guerra perduta (...). Le risorse strappate altrove sono finite nei patrimoni privati di pochi patrioti, lasciando il resto del mondo a bocca asciutta e mani vuote».
Terminato il libro, viene quasi voglia d’appropriarsi di una frase di Sidney Sonnino che vi viene citata: «Se questa è l’Italia era meglio non averla fatta».