Pablo Neruda, Libero 16/3/2011, 16 marzo 2011
NON PERDONERÒ MAI CHI HA UCCISO LORCA
Federico García Lorca! Era popolare come una chitarra, allegro, malinconico. Profondo e chiaro come un bambino, come il popolo. Se avessero cercato faticosamente, palmo a palmo, in ogni angolo chi sacrificare, come si sacrifica un simbolo, non avrebbero trovato il popolare spagnolo, per velocità e profondità, in nessuno e in nulla come in questo essere eletto. L’hanno scelto bene quelli che fucilandolo hanno voluto sparare al cuore della sua razza.
L’hanno scelto per soggiogare e martirizzare la Spagna, per finirla nel suo profumo più svelto, per spezzarla nel suo respiro più veemente, per tagliare il suo sorriso più indistruttibile. (...) Lui sarà morto, offerto come un giglio, come una chitarra selvaggia, sotto la terra che i suoi assassini buttarono coi piedi sulle sue ferite, ma la sua razza si difende come i suoi canti, in piedi e cantando, mentre gli escono dall’anima vortici di sangue, e così staranno per sempre nella memoria degli uomini.
Non so come fissare il suo ricordo. La violenta luce della vita illuminò solo un momento il suo volto ora ferito e spento. Ma in quel lungo minuto della sua vita la sua figura risplendette di luce solare. [...] In mezzo alla tremenda, fantastica povertà del contadino spagnolo che persino io, io ho visto vivere nelle caverne e cibarsi di erbe e rettili, passava questo vortice magico di poesia portando tra i sogni dei vecchi poeti i granelli di polvere e di insoddisfazione della cultura. Lui riconobbe sempre in quelle regioni agonizzanti la miseria incredibile in cui i privilegiati tenevano il loro popolo, soffrì con i contadini l’inverno nei pascoli e nelle colline secche, e la tragedia fece tremare di molti dolori il suo cuore del sud.
Ora mi sovviene uno dei suoi ricordi. Qualche mese fa riprese a girare per i paesi. Andava a rappresentare Peribáñez, di Lope de Vega, e Federico uscì a percorrere gli angoli dell’Estremadura alla ricerca dei costumi, gli abiti autentici del secolo XVII che le vecchie famiglie campagnole conservano ancora nelle loro cassapanche.
Ritornò con un carico prodigioso di tessuti azzurri e dorati, scarpe e collane, vesti che per la prima volta dopo secoli vedevano la luce. La sua irresistibile simpatia otteneva tutto.
Una notte, in un villaggio dell’Estremadura, non riuscendo a dormire, si alzò quando venne l’alba. Era ancora pieno di nebbia il duro paesaggio locale. Federico si sedette a guardare il sole che si alzava accanto ad alcune statue abbattute.
Erano figure di marmo del secolo XVIII e il posto era l’entrata di un vecchio feudo, totalmente abbandonato, come tanti possedimenti dei grandi signori spagnoli. Federico guardava i tori spezzati, illuminati di biancore dal sole nascente, quando un agnellino che aveva smarrito il suo gregge iniziò a pascolare accanto a lui. Improvvisamente arrivarono sei o sette maiali neri che si avventarono
sull’agnello e in pochi istanti, tra il suo spavento e la sorpresa, lo fecero a pezzi e lo divorarono. Federico, vittima di una paura indicibile, paralizzato dall’orrore, guardava i maiali neri uccidere e sbranare l’agnello tra le statue cadute, in quella mattina solitaria. Quando, tornato a Madrid, me lo raccontò, la sua voce tremava ancora, perché la tragedia della morte ossessionava fino al delirio la sua sensibilità di bambino. Ora la sua morte, la sua terribile morte che nulla ci farà dimenticare, mi porta il ricordo di quella mattina di sangue. Forse a quel grande poeta, dolce e profetico, la vita aveva offerto in anticipo, e con un simbolo terribile, la visione della sua
stessa morte. Ho voluto portare a voi il ricordo del nostro
grande compagno scomparso. Molti, forse, si aspettavano da me tranquille parole poetiche lontane dalla terra e dalla guerra. La stessa parola Spagna suscita in molte persone un’immensa angoscia mescolata con una grave speranza. Io non ho voluto aumentare queste angosce né turbare le nostre speranze ma, appena lasciata la Spagna, io, latinoamericano, spagnolo di razza e di linguaggio, po-
tevo parlare solo delle sue disgrazie. Non sono un politico e non ho mai preso parte alla battaglia politica, e le mie parole, che molti avrebbero voluto neutrali, si sono tinte di passione. Capitemi e capite che noi, poeti dell’America Spagnola e poeti di Spagna, non dimenticheremo né perdoneremo mai l’assassinio di colui che consideriamo il più grande dei nostri, l’angelo di questo momento della nostra lingua. E perdonate che tra tutti i dolori della Spagna vi ricordi solo la vita e la morte di un poeta. È che noi non potremo mai dimenticare questo crimine, né perdonarlo. Non lo dimenticheremo e non lo perdoneremo mai. Mai.