Giampiero Mughini, Libero 17/3/2011, 17 marzo 2011
BERTO E MORAVIA A DUELLO PER LA MARAINI
Il romano Walter Mauro è uno che ha molto vissuto, molto viaggiato, molto scritto. Gli ottant’anni li ha superati nettamente e se ne infischia perché c’è ancora tanto da vedere e da fare. Scrittore, giornalista, grande esperto di jazz, un professore di liceo che insegnava letteratura in maniche di camicia e che a tuttora i suoi studenti raccontano come fosse una leggenda, Mauro ha appena pubblicato un’autobiografia sugosa e garbata dove in ogni riga c’è un fatto e un volto (La letteratura è un cortile, Giulio Perrone Editore, pp. 152, 15 euro). Come ragguaglio di prima mano di libri, autori e luoghi canonici del mondo editoriale e artistico di quaranta-cinquant’anni fa è un libro prezioso. E anche se qualcuno di voi mi rinfaccerà che parlare di quel tempo è come parlare di roba antichissima, tutt’altra da quella che oggi ci aizza l’uno contro l’altro sui giornali, in televisione e magari sulle paginate di Facebook. Per l’appunto.
Mauro ne ha viste e conosciute una più del diavolo, negli anni in cui il mondo culturale era diviso tra quelli che tifavano per il comunismo e quelli che tifavano contro il comunismo. Anni che Mauro viveva a disagio perché lui amava il jazz e tante altre cose dell’America, e invece collaborava al quotidiano paracomunista romano Paese Sera (una sorta di Repubblica a misura degli anni Cinquanta e Sessanta, tanto è vero che il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari attinse a tantissimi dei suoi giornalisti), un giornale dove il violino andava suonato ad esaltare le bellezze dell’Urss e dintorni. Sonoglianniincuiafareda “secondo padre” del poco più che ventenne Mauro è il poeta Giuseppe Ungaretti, quello che alla Liberazione avrebbero voluto cacciare da ogni cosa perché nel 1924 Benito Mussolini aveva scritto una prefazione a un suo libro di versi.
Tutta roba antichissima, l’ho detto. Come il violento battibecco romano (alla li-
breria Einaudi di via Veneto) tra Alberto Moravia e Giuseppe Berto. I due non si amavano affatto, a cominciare dal fatto che Moravia volgeva verso un pubblico di sinistra e Berto invece era stato fatto prigioniero da repubblichino di Salò e come tale aveva passato anni non felici in un campo di concentramento americano.
Succede che una giovane scrittrice che in quel momento è una pupilla di Moravia, Dacia Maraini, vinca un importante premio letterario europeo. A via Veneto Moravia fa un elogio sperticato della giovane scrittrice. A quel punto Berto esplode e potete immaginare quali argomenti poco cavallereschi abbia scaraventato in volto al rivale. E comunque caramelle al miele se rapportate
all’oggi, quando una conduttrice televisiva esordisce reboante a raccontare le “corna” di una sua collega, “corna” peraltro strombazzatissime dai tanti rotocalchi popolari specializzati nell’argomento.
«Quello della tv»
Antichissimo e delizioso è l’episodio che riguarda Mario Soldati a un tempo in cui la televisione non esercitava ancora la sua dittatura assoluta su ogni emozione e parola della nostra vita quotidiana. Era successo che Soldati, uno scrittore e un saggista che il suo talento lo faceva vorticare a 360 gradi, avesse fatto un paio di apparizioni in televisione a raccontare quanto gustasse il buon cibo e il buon vino. Una mattina che Soldati e Mauro escono assieme, un passante si avvicina a Soldati e gli chiede: «Lei è quello della cucina in televisione?». Era ancora un
tempo in cui si attribuiva all’avere scritto dieci o venti libri un peso maggiore che non una comparsata di cinque minuti in televisione, e perciò di essere stato avvicinato così Soldati se ne offese terribilmente. Oggi nessuno che non sia un malato di mente può dubitare che agli occhi del grande pubblico cinque minuti di televisione valgano dieci volte l’avere scritto una ventina di libri. Oggi un Dante Alighieri comparisse per cinque minuti alla Prova del cuoco, l’indomani mattina gli si avvicinerebbero a frotte a chiedergli la sua ricetta della pasta alla carbonara.
E a proposito di quel tanto che è cambiato nell’industria editoriale in questi ultimi venti o trent’anni arriva a proposito il libro del veneziano Cesare De Michelis, uno che i libri li pubblica, li compra (ha una biblioteca personale di oltre 50mila volumi), li legge. A scandire i trent’anni
di vita della casa editrice Marsilio, di cui De Michelis è stato uno dei fondatori ed è a tutt’oggi il capintesta, ecco che agli amici della Marsilio è arrivato Tra le carte di un editore, (Marsilio, pp. 135, 1000 copie non veniali). Una raccolta di scritti recenti e meno recenti in cui De Michelis racconta i debutti artigianali della casa editrice, la
sua revisione culturale ed editoriale dopo le infatuazioni da «sinistra degli anni Sessanta», le sue avventure a scovare l’uno o l’altro scrittore debuttante, da Susanna Tamaro a Margaret Mazzantini.
Ai miei occhi il capitolo più interessante del libro è una lunga intervista in cui De Michelis ragiona sul fatto che il mercato in senso quantitativo è divenuto il sovrano dell’industria editoriale. Un libro conta se vende molto, e questo perché altri criteri e paramentri non ne esistono più.
Cecchi e l’elzeviro
Mezzo secolo fa l’elzeviro di terza pagina di Emilio Cecchi sanciva l’importanza di quel determinato romanzo agli occhi dei suoi trecento lettori. Ancora negli anni Cinquanta raccontati da Mauro sui giornali e sulle riviste si scatenò una bagarre sul Metello di Vasco Pratolini, e da quella feroce bagarre Pratolini ne uscì psicologicamente distrutto. Oggi contano solo e soltanto le copie vendute, si tratti delle ricette gastronomiche di Benedetta Parodi o dei libri scaraventati fuori semestralmente dal bancomat letterario di Andrea Camilleri.
A paragone di queste star chi conosce in Italia, tanto per fare un esempio, uno scrittore come il francese Jean Echenoz che da noi vendepocoeancheseèunodei più grandi scrittori europei contemporanei? De Michelis ha l’aria di ritenere inevitabile tutto questo. E del resto la sorte della sua casa editrice è cambiata da quando ha avuto la ventura di pubblicare (e vendere a caterve) i libri del giallista svedese Stieg Larsson. Giustissimo quello che lui dice, che se una casa editrice non fa i conti del dare e dell’avere, prima o poi capitombola. Accadde alla Einaudi orgogliosissima di Giulio Einaudi. E con tutto questo il fatto che i giornali siano zeppi di riferimenti a Benedetta Parodi e che nessuno parli di Echenoz è allucinante. Ve lo ricordate quel che era successo cento e più anni fa a Italo Svevo?