Melisa Garzonio, Corriere della Sera 18/03/2011, 18 marzo 2011
GIACOMETTI
CONFIDENZE DI UN ARTISTA
LO SCULTORE EREMITA DIVENUTO LEGGENDA COSI’ PLASMO’ FORMA E ANIMA DEL ’900 AL CHIUSO DI UN ANTRO BUIO E POLVEROSO
Parigi, rue Hyppolyte — Maindron 46. L’atelier dove visse e lavorò l’artista più amato e costoso del mondo è un antro polveroso, senza luce elettrica, né acqua corrente. Buio come una topaia, chiuso da pareti rese viscide da sedimenti di gesso, argilla, fumo di sigaretta, polveri colorate. Eppure, per quasi quarant’anni quello spazio inospitale è stato il centro di gravità dell’esistenza di Alberto Giacometti, il leggendario scultore svizzero che oggi viene venduto all’asta a prezzi folli. Incurante del successo mondano, che gli arrise sfacciato fin dalle prime «Plaques» d’ispirazione surrealista, Giacometti aveva scelto di vivere rintanato nella povertà del suo studio, in simbiotica fusione con se stesso. Impossibile stanarlo, vani anche i tentativi della moglie, la dolce Annette Arm, per la quale aveva affittato controvoglia un’altra stanza adiacente: Alberto se ne stava là, piegato come un monaco in preghiera, sotto la grande (e unica) finestra che dava a nord, ore e ore a disegnare, dipingere, scolpire, ossessivamente. Nessuno era ammesso, ad eccezione di Diego, l’amato fratello e modello preferito, immortalato fin da giovinetto, la testa riccioluta, nei disegni, nei dipinti, o modellato col gesso, nel granito e nel marmo. Nella fase in cui la figura allontanandosi si rimpicciolisce e in quella dove si fa immensa e filiforme. «L’atelier era la caverna dell’eremita, il laboratorio del chimico. Praticamente tutto ciò di importante che Giacometti creò fu concepito qui, dai ritratti della sua cerchia intima— in particolare suo fratello Diego e sua moglie Annette— ai più solenni dei suoi "Uomini che camminano"e la "Donna immobile"» , racconta Michel Peppiat, massimo studioso dell’artista, autore del volume «Nello studio di Giacometti, segreti e curiosità dell’atelier parigino» , presentato col doppio catalogo della mostra dedicata al grande «Giacometti. L’anima del Novecento» alla sua prima uscita italiana dopo l’anteprima di New York, aperta fino al 5 giugno al Maga di Gallarate. Curatore lo stesso Peppiat, al quale gli eredi Giacometti hanno concesso il nullaosta alla selezione di una novantina di opere mai esposte prima d’ora in Europa, in particolare fantastici pezzi (disegni, dipinti, sculture) provenienti dalla collezione privata di una nipote. Due opere provengono dalla Gnam di Roma, altre da un’importante collezione privata. Giacometti l’eremita ma, a suo modo, anche mondano e affabulatore. Soddisfatta la bulimia da lavoro, gli piaceva uscire a notte fonda per farsi il bicchiere della staffa negli allegri postriboli di Montparnasse. La sua allure era inconfondibile: giacca in tweed, camminata strascicata, il ciuffo scomposto, l’eterna Lucky Strike fra le dita ingiallite. Emigrato giovanissimo a Parigi dalla natia Stampa, un ameno villaggio della Val Bregaglia, il primo dei quattro figli del pittore Giovanni Giacometti patì tutta la vita la lontananza da casa, ecco che allora l’atelier diventò un punto fermo, la sua «grotta di Aladino» . Ci entrò nel 1927 per rimanerci fino alla morte, avvenuta l’ 11 gennaio del 1966. «È strano— commentò in un’intervista tanti anni dopo —, quando entrai nel locale mi sembrava minuscolo... ma più ci rimanevo più diventava grande... riuscivo a fare qualsiasi cosa là dentro. Ho realizzato le mie più grandi sculture qui» . L’atelier, infatti, cominciò subito a riempirsi di tele impilate, teste scolpite, ritratti raschiati, disegni non finiti, fino a diventare, negli anni, secondo Peppiat, «l’opera d’arte più onnicomprensiva di Giacometti» . Spiega il curatore: «Lo studio di Giacometti attirava innumerevoli visitatori. Il contrasto straordinario tra invenzione e caos, grandeur creativa e miseria domestica, fusi insieme sotto l’eterna luce grigia e polverosa dello studio, era un’esperienza raccontata innumerevoli volte e mai dimenticata» . Non c’era pittore e fotografo di spicco a Parigi che non lo avesse in simpatia, da Picasso agli artisti surrealisti, insieme a Derain, Balthus, Braque e Miró. Ma anche scrittori e filosofi, da Breton a Prévert, da Eluard a Leiris, Bataille. Jean Paul Sartre lo definì «l’esemplare dell’uomo esistenziale» . Persino l’introverso e altezzoso Samuel Beckett volle togliersi lo sfizio di una visita al santuario Giacometti. Diventarono amici, lunghi silenzi e lunghe passeggiate, in fondo si assomigliavano. Melisa Garzonio