Giangiacomo Schiavi, Corriere della Sera 18/03/2011, 18 marzo 2011
L’Italia e l’energia nucleare
Moratoria, conferenza sull’energia, sicurezza Quel protocollo che salvò il nucleare all’italiana - «Noi non faremo come quei piemontesi che dicevano curagi, scapuma. Noi vogliamo dare energia al Paese senza far correre rischi alla popolazione. La contestazione non ci spaventa: ci prenderemo le nostre responsabilità. Voi fate pure le vostre richieste: risponderemo ad una ad una. Ci metteremo qualche mese, ma vi giuro che la faremo ripartire questa centrale…» . Era la primavera di un secolo fa, quando il ministro dell’Industria Alberto Marcora picchiò un secco pugno sul tavolo della sala riunioni di Caorso, sfidando la contestazione che issava i cartelli con su scritto Nucleare? No grazie. Anche allora, nel marzo 1979, il mondo era appeso a un incubo radioattivo, a una nuvola uscita dalla centrale di Three Mile Island, in Pennsylvania, al core melt down del reattore, il più grave e temuto degli incidenti nucleari. Ma in quella saletta della Bassa, dopo qualche urlo e qualche stretta di mano, il buon senso e il pragmatismo definirono un modello politico per non perdere la testa davanti all’onda emotiva che voleva chiudere le quattro centrali italiane in funzione, Caorso, Trino Vercellese, Latina e Garigliano, accusando Enel e Cnen di non aver previsto la fusione del nocciolo e un adeguato piano per l’emergenza con l’evacuazione di una zona densamente abitata. Meriterebbe di essere riproposto pari pari alla politica di oggi, incerta, contraddittoria e confusa sull’opzione nucleare, il protocollo di un metodo che fronteggiava l’allarmismo dei nemici dell’atomo con una ricognizione pratica sulla sicurezza degli impianti. Perché fu il tentativo (in parte riuscito) di dare una risposta ai dubbi e alle paure che una tecnologia complessa può suscitare dopo un errore umano o una calamità naturale. E’ giusto interrogarsi sull’atomo e i suoi pericoli, hanno scritto dopo Fukushima Sergio Rizzo e Angelo Panebianco, pretendere che si facciano controlli esigenti e si correggano eventuali errori. Quel che non bisogna perdere è il filo della razionalità, una razionalità carica di ogni possibile valore umano. Una riflessione dopo l’esplosione nei quattro reattori giapponesi è doverosa e necessaria, ma insieme alla moratoria serve subito una conferenza nazionale sull’energia aperta e non pilotata da tesi precostituite, come la campagna pro atomo di qualche settimana fa: gli italiani debbono conoscere i vantaggi e i rischi di una scelta che li coinvolge da vicino dai tecnici, dai medici e dagli economisti, senza i voltafaccia delle convenienze pesate sul bilancino elettorale. E devono essere informati meglio sulle linee di un piano energetico che ancora non c’è, sui numeri del fabbisogno elettrico, sui costi di una dipendenza eccessiva dal petrolio e sulle opportunità offerte dalle fonti alternative e rinnovabili. Nucleare sì, nucleare no, è lo stesso dilemma che l’opinione pubblica si pone, oggi come trent’anni fa, quando venne presentato a Venezia il rapporto di 17 mesi di lavoro di una commissione di esperti voluta dal Parlamento, una relazione di maggioranza e una di minoranza in aperto dissenso sulla fissione nucleare, con le tesi di Giorgio Nebbia e Carlo Mussa Ivaldi, tristemente profetiche: nei costi del nucleare si dimenticano la sicurezza e il decommisioning, lo smantellamento. Con le grisaglie e i pettinati delle dinastie del kilowattora a confronto sul Canal Grande c’erano gli scienziati, i padri del nucleare italiano, Felice Ippolito, Edoardo Amaldi e i rappresentanti degli enti locali, i politici del territorio impegnati da anni a rompere i muri ancora omertosi di Enel e Cnen, abituati a calare le decisioni dall’alto senza verifiche ambientali o strategie di consenso con i cittadini. Toccò a loro rompere il muro che a Caorso nascondeva un guazzabuglio di furbizie e omissioni, come il giallo sul piano d’emergenza, che alla fine degli anni Settanta sembrava ancora una segreta questione di Stato. «Un incidente nucleare qui? Facimme ’ e corna» , era stata la candida risposta del prefetto di Piacenza alle domande di un cronista. Quel piano nascosto in un cassetto era più adatto a Sturmtruppen che a un’emergenza vera, con una banalità di frasi fatte e di vaghi consigli che minimizzavano persino la caduta delle barre di controllo radioattive. «State calmi, non è accaduto nulla di grave» , era stampato sui volantini forniti per essere distribuiti alla popolazione, in un raggio calcolato di appena 800 metri attorno alla centrale. In caso di sgombero, doveva scattare un fatidico comma tre: i militari bloccano le uscite e con gli autocarri dell’esercito si portano le persone nei centri di contaminazione. Prima, clamorosa sorpresa: nessuno sa dove sono. Come gli altoparlanti per avvertire la popolazione: durante la prova d’emergenza li hanno dovuti chiedere alla sezione locale del Pci. Dai e dai, con Enel e Cnen disposti a collaborare, Caorso diventò un test per la politica e la capacità di guidare i sistemi complessi. In pochi mesi venne revisionato l’impianto, adeguato il piano d’emergenza, creato un centro di informazioni, costituita la mappa dei luoghi per la decontaminazione e una rete di monitoraggio. La condivisione politica , , tra maggioranza e opposizione, garantì il buon funzionamento dell’impianto fino al 1986. Poi arrivò Chernobyl e il nucleare all’italiana collassò tra ambiguità, vigliaccherie e convenienze politiche. Rivista oggi, la riflessione di Marcora del 1979 individua un metodo di lavoro per rispondere ai dubbi e agli interrogativi che la tecnologia dell’atomo ci pone. Perché sono i misteri, i ritardi e le tante disinvolte leggerezze a condizionare l’accettazione di scelte che riguardano la vita di tutti. E perché in queste decisioni non ci devono essere vincitori o vinti Sarebbe un grave errore sottovalutare quello che sta accadendo nei reattori di Fukushima, non prendersi una pausa mentre lo spettro del day after incombe su migliaia di persone. In un Paese senza centrali, però, bisognerebbe almeno evitare che l’improvvisazione diventasse l’unica linea guida di un governo.