il Fatto Quotidiano 18/3/2011, 18 marzo 2011
NON È PIÙ’ TEMPO DI CAVALIERI - LA PRIMA VOLTA
che sentii pronunciare la parola “onore” fu all’inizio degli anni Cinquanta, quando a sei anni feci da comparsa occasionale, con altra gente del mio paese, in un film intitolato Il prezzo dell’onore. Narrava la storia di una ragazza bella e povera di un paesino nel Molise, ingiustamente accusata di essere stata disonorata da un latifondista cattivo. Chiesi a mio padre cosa significava “onore”. E lui mi rispose che l’onore è la stima che meritiamo dagli altri per la nostra onestà e lealtà. Ricordo che in quegli anni, nei comizi elettorali, si parlava spesso di “onore” riferendosi alle vicende più recenti della storia italiana. C’era chi accusava Mussolini di «aver disonorato l’Italia» togliendole la libertà e portandola al disastro, e chi esaltava la Repubblica sociale di Mussolini perché aveva «riscattato l’onore dell’Italia dopo il tradimento dell’8 settembre».
Il concetto di onore ha molteplici significati, varianti col mutare delle epoche. Nel 1923 Giuseppe Prezzolini affermò che l’onore apparteneva ai «sentimenti che sembrano sparire nelle società moderne». Egli si riferiva soprattutto al “codice di onore”, che aveva avuto origine nel Medioevo francese, con la cavalleria e il feudalesimo, come costume aristocratico regolato da norme rigide, prima fra tutte la fedeltà al proprio re e signore. Quando la cavalleria tramontò, l’onore divenne sinonimo di alta reputazione pubblica. «A chi stima l’onore assai, scriveva Francesco Guicciardini nei sui “Ricordi”, succede [riesce] ogni cosa, perché non cura fatiche, non pericoli, non danari. Io l’ho provato in me medesimo, però lo posso dire e scrivere: sono morte e vane le azioni degli uomini che non hanno questo stimulo ardente», mentre era «perniciosa e detestabile» l’ambizione che «ha per unico fine la grandezza», come fosse un idolo, al quale far sacrificio «della coscienza, dell’onore, della umanità e di ogni altra cosa».
Circa due secoli dopo, nel 1748 l’illuminista Montesquieu affermava che l’onore era la virtù delle monarchie. Qualche decennio più tardi un giornale della Rivoluzione francese definì l’onore «il perfido talismano con cui si sono visti i despoti calpestare sotto i piedi la santa umanità». Ma nel 1802, Napoleone Bonaparte, Primo console, istituì la Legione d’onore, col motto «Onore e Patria», quale premio che la Francia offriva ai suoi soldati più eroici per consacrarne la gloria. «La vita di un Francese, affermava Napoleone, non è nulla a paragone del suo onore».
Durante il Risorgimento, il concetto di onore fu associato alle lotte per l’indipendenza dell’Italia, raffigurata dai patrioti come una giovane fanciulla prigioniera dello straniero, che voleva disonorarla assoggettandola alle sue voglie. L’impulso morale dei patrioti italiani scaturì dal sentimento della vergogna, che essi provavano per essere sudditi senza nazione. «Se noi dobbiamo risvegliarci una volta», scriveva Leopardi nel 1821, «e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev’essere non la superbia né la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare strada del tutto, e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò non faremo mai nulla». E quasi accogliendo l’esortazione del poeta, il giovane Massimo d’Azeglio sentiva un forte «rossore dello stato politico dell’Italia di allora». «Mi vergognavo d’essere Italiano!», ricordava il marchese nelle sue memorie, scritte dopo il compimento dell’Unità. E aggiungeva: «Questo penoso pensiero svanì quasi del tutto dal ’48 al ’59. Dal ’60 in qua s’è in parte ridestato e prende forza di nuovo sull’animo mio: non siamo l’ammirazione dell’Europa, bisogna dirselo».
Le vicende dell’Italia unita non parvero sempre onorevoli ai patrioti delusi dalla realtà del nuovo Stato. Eppure, nei successivi cinquanta anni, la vita dello Stato italiano dovette molto al senso dell’onore, come affermò cento anni dopo Leopardi il comunista Antonio Gramsci: «Lo Stato borghese vive in grandissima parte sul lavoro e sull’abnegazione di migliaia di funzionari civili e militari che compiono spesso con vera passione, il loro dovere, che hanno vivo il senso dell’onore, che hanno preso sul serio il giuramento prestato nel-l’atto di iniziare il loro servizio. Se non esistesse questo nucleo fondamentale di persone sincere, lealmente devote al loro ufficio, lo Stato borghese crollerebbe in un istante, come un castello di carta».
E proprio questo avvenne ventidue anni dopo, quando lo Stato italiano, travolto dalla disfatta militare nella guerra voluta da Mussolini, si sfasciò all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’Italia, divisa in due con la monarchia al Sud e la Repubblica sociale al Nord, fu dilaniata dalla guerra civile fra fascisti e antifascisti, mentre eserciti stranieri si combattevano ferocemente nella penisola. Forse mai come in quegli anni terribili, di nuovo si parlò di onore in Italia su fronti opposti, da parte di chi giudicava un tradimento nei confronti dell’Italia l’alleanza con i tedeschi e di chi giudicava un disonore per l’Italia l’armistizio con gli alleati. Gli italiani fedeli alla tradizione del Risorgimento, dichiarò Benedetto Croce nel Regno del Sud, «si misero subito all’opera per riportare la loro patria alla libertà che era anche la sua dignità e il suo onore». E dalla Repubblica sociale replicava Giovanni Gentile: «Ora si presenta una questione d’onore: ossia di dignità morale, del rispetto assoluto che ogni uomo deve a se stesso, ossia a quello che egli tiene ad essere; e quindi fedeltà alla parola data, al giuramento con cui ha impegnato il proprio avvenire». E così, odiandosi reciprocamente, giovani fascisti e giovani antifascisti , si uccidevano combattendo per riscattare l’onore della patria italiana.
Settanta anni da allora, non si parla quasi più di onore in Italia. E non sempre appartiene a chi si fregia del titolo di Onorevole il senso dell’onore, inteso come stima meritata per onestà e lealtà.