Brigitte Schwarz, Quattroruote dicembre 2010, 18 marzo 2011
PAROLA DI GHIDELLA
Vittorio Ghidella, oltre a essere riconosciuto quale il padre di Uno, Thema, Delta, Croma e Tipo, ha segnato il punto di svolta nella Fiat ed è stato il primo a perseguire la filosofia della sinergia dei vari modelli in produzione.
Lei è nato a Vercelli nel 1931. Dopo la guerra, si iscrisse a Ingegneria meccanica a Torino ed entrò in Fiat, che possedeva un’azienda di cuscinetti a sfera, la Riv, poi venduta agli svedesi della Skf. In seguito, divenne il primo amministratore delegato italiano in una multinazionale svedese...
«Fu un’esperienza importantissima e determinante per
la mia formazione, perché mi diede la possibilità di
conoscere le persone e usare le lingue. Quando arrivarono gli svedesi e presero in mano l’azienda, avevano bisogno di qualcuno da educare: quindi andai in Scandinavia a imparare la lingua e presidiare la situazione con compiti tecnici. Non è stato facile per uno straniero, in particolare per un italiano, oltretutto piccolo e nero, farsi scoprire; però devo riconoscere al pragmatismo degli svedesi la concretezza di aver saputo cogliere il buono in me».
Poi si trasferì negli Stati Uniti a dirigere l’Ellis Holland, divisione di mezzi agricoli della Fiat.
«L’azienda era uno spin off della Allis Chalmer, che aveva bisogno di essere ristrutturata prima di essere integrata nelle altre aziende Fiat. Fui mandato lì con la prospettiva di rimanere come responsabile. Avevo già comprato la casa, ma poi successe qualcosa d’imprevedibile».
Gianni Agnelli le propose di tornare in Italia e la nominò responsabile della divisione Auto di Fiat alla fine degli anni 70...
«In quel momento, la Fiat era entrata in una crisi abbastanza grave. Gli Agnelli, Gianni e Umberto, cercavano qualcuno con esperienza internazionale, meno provinciale di quanto fossero i quadri della Fiat. Fui indicato per quello, e nel 1979 fui messo di fronte a una realtà difficile, imprevista e imprevedibile: fare il responsabile della Fiat Auto».
Erano anni segnati da continui scioperi e dal terrorismo. C’era il rischio che la Fiat divenisse un mattatoio. Quale fu la reazione della dirigenza?
«L’unica possibile in quel momento di disordine, d’instabilità, di rapporti impossibili con i sindacati, di scioperi, di disordini, di sabotaggi. Non rimaneva altro che dare una spallata e quindi si decise, su mia proposta, di fare qualcosa. Si prese spunto da una manifestazione di facinorosi che, dopo aver fermato la produzione, furono licenziati. Era un fatto inaudito, perché in quegli anni nessuna azienda si permetteva licenziamenti per motivi disciplinari. Cominciò una reazione violentissima del sindacato, che arrivò non solo a protestare, ma anche a bloccare le fabbriche. Tutto ciò andò avanti, di fronte allo sbigottimento generale del Paese. Ma il momento culminante fu la reazione della popolazione di Torino, che decise in maniera spontanea di muoversi in un corteo di protesta contro l’impossibilità di lavorare: di fronte a questo corteo dei 40 mila, passato alla storia come reazione di saturazione alle continue pressioni di natura demagogica e politica, sembrò che il mondo sindacale si svegliasse. Venne raggiunto un accordo nel quale si confermarono i licenziamenti e si dava la possibilità di manovrare nelle fabbriche mantenendo disciplina e ordine. Fu quello il punto culminante della partenza della ristrutturazione».
I sindacati si resero conto di non avere più il consenso popolare. E qui partì il rilancio, sotto la sua regia...
«Il rilancio si basava sulla pace sindacale, sulla possibilità di gestire le fabbriche in maniera efficiente, sulla riorganizzazione del settore auto, che negli anni era stato costruito in una maniera stratificata. Tante marche, tanti personaggi a gestirli, conflitti interni: c’era da mettere ordine. Una parte fondamentale del lavoro fu la ristrutturazione delle fabbriche e l’apertura di impianti nuovi, con enormi investimenti. Io ho fatto quello che qualsiasi amministratore avrebbe fatto. La cosa principale fu partire dall’analisi del mercato, valutare i prodotti della concorrenza e i nostri, rilanciare una gamma di prodotti con le tempistiche corrette, reperire i capitali necessari e così via. Attività che sembrano banali, ma che in quelle condizioni erano difficili, perché c’era da ricreare uno spirito vincente in un’azienda che in quel momento era perdente».
Pur da dirigente, lei rimase vicino al mondo operaio...
«Io sono nato nel mondo della produzione. Il primo lavoro in Fiat fu da impiegato tecnico cronometrista, colui che misurava i tempi per i cottimi. Fu un lavoro educativo, che mi formò e diede la possibilità di conoscere la mentalità degli operai. Da questa conoscenza – e dalla fiducia che arrivò implicita – ebbi la possibilità di convincerli che era necessario fare certe cose: si sposarono la mia cultura manageriale con l’innato senso di guidare un gruppo di persone che si riconoscevano in me. Qualcuno ha scritto che la Fiat era stata costruita secondo l’esempio sabaudo: in quegli anni, in cui c’era ancora la vecchia mentalità dove si lavorava per bisogno, convincere le maestranze a fare cose utili per loro e l’azienda fu un punto fondamentale».
In quale misura il suo sapere proveniva dalla famiglia?
«Nel Piemonte della mia gioventù, la cultura era basata sull’accettazione del proprio ruolo e sull’ubbidienza. E io crebbi in quell’ambiente: ognuno al suo posto a fare il proprio dovere».
Nel 1983, venne presentata la Uno: fu un successo che permise alla Fiat di arrestare il declino.
«La Uno era considerata una macchina avanzatissima, perché combinava ingombri esterni compatti con un grande spazio interno. Con quel modello, la Fiat espresse il massimo della propria capacità tecnica, che era imperniata sulle piccole vetture per la motorizzazione di massa. Dove la Casa non era sicuramente all’altezza internazionale era nel settore delle vetture medio-grandi. La Lancia Thema fu un ottimo risultato, ma fu un episodio, perché dopo lo sviluppo andò a urtare contro carenze, anche economiche, di una struttura industriale di un Paese che non avrebbe consentito la produzione di macchine in quel segmento».
Fu difficile ideare la nuova famiglia di modelli?
«Si partì dall’analisi di quello che voleva il cliente, realizzando le prime ricerche sistematiche di mercato. Una delle prime cose che si fece fu quella di analizzare i veicoli della concorrenza in una grande stanza: dieci modelli che furono smontati fino all’ultimo bullone, coi particolari appesi alle pareti, coi tecnici che analizzavano le differenze, in modo da fare il nostro modello meglio degli altri».
In quegli anni si delineò un accordo con la Ford...
«La Fiat era leader nelle piccole di massa, ma non era così capace nelle vetture medio–grandi, sempre più richieste sui mercati internazionali. In quel settore, per entrare con autorevolezza, bisognava investire molto, per cui era necessario guardare agli altri protagonisti per valutare possibili integrazioni. La Ford aveva problemi in Europa con le sue piccole, che non aveva o non era capace di produrre, ma si difendeva meglio sulle medie. Ci furono mesi di discussione, di analisi, di studi: non se ne fece nulla».
Perché i dirigenti della Fiat si tirarono indietro?
«Era un accordo difficile per entrambe le aziende, perché significava una rinuncia a determinati poteri dei rispettivi management. Il vincolo attirò parecchie critiche. E questi contrasti di natura provinciale furono la causa dell’interruzione delle trattative».
La sua visione anticipò i tempi e risulta tuttora vincente, visti gli odierni accordi tra Fiat e Chrysler e tra altri gruppi automobilistici...
«Si direbbe che oggi si ripresentino le stesse condizioni di allora, nel senso che il business mondiale si articola su diversi settori. Per essere competitivi, bisogna essere presenti su tutti i modelli, in tutti i settori, e avere un’organizzazione di vendite mondiale. Io mi auguro, e auguro a quelli che ci lavorano, il successo in quest’operazione, che passa inevitabilmente attraverso accordi e, quindi, implica una rinuncia alla sovranità,
a favore dello sviluppo della Fiat stessa».
A questo punto, esplose un conflitto con Cesare Romiti, che sposava una visione diversa dalla sua...
«Romiti aveva una percezione del mondo dell’automobile che dimostrava uno scetticismo sul futuro del settore. Preferiva godere dei vantaggi economici generati dal rilancio della Fiat Auto per favorire la diversificazione in altri campi industriali. Se ci fu un conflitto, fu ideologico, o, comunque, di strategie».
E lei lasciò la Fiat, che entrò in una fase di crisi…
«La mia uscita fu traumatica perché il gruppo di uomini che credevano, come me, nell’iniziativa si trovarono senza un punto di riferimento, privi di una guida tecnicamente evoluta: l’auto bisogna saperla fare – non basta disegnarla sul tecnigrafo – perché ci sono problemi nella gestione della fabbriche, della vendita, del marketing... La Fiat si trovò sbandata e iniziò un periodo d’incertezza abbastanza lungo, che s’accompagnò poi a una crisi di mercato importante e a una carenza di quattrini. Nel giro di qualche tempo, la Fiat si ritrovò nelle condizioni in cui era prima del mio arrivo».
Abbandonata la Fiat, acquistò con Tito Tettamanti la Saurer. Nel ‘93, morì sua figlia Amalia, un evento tragico che impresse una svolta alla sua esistenza...
«La vita sembrava si fosse fermata e la mia esistenza perdette senso, significato, scopo. Decisi di vendere. Oggi, grazie alla lunga esperienza acquisita, e nel segno della continuità con le attività precedenti, mi occupo, con successo, di gestione aziendale».