Valerio Maccari, Affari&Finanza 14/3/2011, 14 marzo 2011
I SOCIAL NETWORK SUPERVALUTATI, NUOVO RISCHIO BOLLA PER IL NASDAQ
Una corsa frenetica all’investimento verso tutto ciò che è new media. Gruppi finanziari, banche e fondi specializzati che, a suon di milioni di dollari, acquistano partecipazioni anche microscopiche in social network e simili. Facendone decollare le valutazioni verso quote esorbitanti, che sembrano del tutto scollegate dall’effettiva capacità delle società di generare profitti reali. E che, per questo, potrebbero sgonfiarsi da un momento all’altro, con gravi ripercussioni sull’intero sistema economico appena ripresosi dalla crisi. Per Carol Bartz, amministratore delegato di Yahoo, non c’è alcun dubbio. "Siamo nel bel mezzo di una bolla Internet". Più precisamente, saremmo nel mezzo della Bolla 2.0: la seconda dopo quella di dieci anni fa.
Per altri, invece, l’attuale frenesia è la legittima scommessa della finanza sull’ultima frontiera dell’economia della Rete. Certo gli elementi per ritenere che si tratti di una bolla speculativa ci sono. Innanzitutto, l’esistenza di un gruppo di investitori nordamericani – capeggiati da JpMorgan, Goldman Sachs e T. Rowe Price responsabile della maggior parte degli investimenti. «Un sistema – spiega Andrea Rangone, direttore degli Osservatori del Politecnico di Milano che crea i presupposti per dinamiche che potrebbero non essere del tutto trasparenti». In più, la fase attuale è caratterizzata da aumenti di valore che non riflettono i fatturati: è esemplificativa la spirale imboccata da Facebook. A gennaio, il social network fondato da Zuckerberg – che nel 2010 ha ricavato 2 miliardi di dollari è stato oggetto dell’interesse della Goldman Sachsm che ha acquistato l’1% della società per 500 milioni di dollari e ne ha piazzato un ulteriore 3% ai suoi clienti per 1,5 miliardi, portandone il valore totale a 50 miliardi.
Un mese dopo, la General Atlantic ha offerto 65 milioni per lo 0,1%, facendo schizzare a 65 miliardi (un aumento del 30%) la valutazione complessiva. Sui mercati grigi dove si precontrattano azioni di società ancora non quotate, Facebook vale 85 miliardi. Una cifra esorbitante se confrontata con i ricavi del social network. Che non sono di certo aumentati negli ultimi mesi, allo stesso ritmo con cui sono cresciute le valutazioni da parte della finanza. Stessa situazione per Twitter. La società, nel 2010, ha fatturato 150 milioni di dollari, reinvestiti in server e data storage. Eppure, nell’ultimo round di fundraising di dicembre, la piattaforma di microblogging era già valutato 3,7 miliardi di dollari, che salgono, considerate le ulteriori offerte d’acquisto, da parte di Facebook, Google e Jp Morgan, a 8 miliardi.
Di esempi simili ce ne sono molti. Si va da Zynga, il leader dei giochi per Facebook, valutato 10 miliardi di dollari da Morgan Stanley e T. Rowe price, al social network "latino" Quepasa, che il mercato azionario vede in crescita oltre i 130 milioni di dollari nonostante abbia appena 31 milioni di utenti, e in calo.
D’altronde, sembra che per scatenare l’euforia degli investitori basti avere l’etichetta di social network. Uno scenario che, inevitabilmente, riporta alla mente la Dot Com Bubble quando si parlava di prefix investment: bastava che una società portasse il prefisso e o il suffisso .com nel suo nome per farla esplodere nel mercato azionario. E nuove realtà si trovavano a valere come colossi industriali consolidati. All’apice della bolla, per dirne una, Tiscali valeva quanto la Fiat. «Ma ci sono delle differenze importanti», sottolinea ancora Rangone. «All’epoca il mercato puntava su tutto, dall’ecommerce a gardens.com, con la speranza che prima o poi qualche azienda diventasse profittevole. Oggi invece, si punta su pochi, selezionati cavalli di razza. Come i social network e Groupon». Cavalli che potrebbero anche avere successo confermando le valutazioni che oggi sembrano esagerate. «Il problema è che per dire con certezza che si è in presenza di un fenomeno speculativo, si dovrebbe avere un’idea precisa su quanto queste aziende possono generare in termini di cashflow».
Visto che ci troviamo a parlare di realtà profondamente innovatrici, fare previsioni diventa difficile. Chi ha scommesso su Amazon durante la Dot Com Era, come poteva prevedere che la società sarebbe passata dalla vendita online di libri a un business model fatto di cloud computing, ecommerce e distribuzione digitale di eBook e musica?. Allo stesso modo, è difficile capire come si evolverà il fenomeno Twitter nel futuro. Come era difficile indovinare, quattro anni fa, che Facebook sarebbe diventato il fenomeno di massa che è oggi, scalzando il modello googlecentrico della rete che ormai sembrava consolidato. Senza contare che i profitti generati dai newmedia, sebbene piccoli, sono in rapida crescita. Facebook, appena due anni fa, non ne generava alcuno. Mentre adesso può contare su 2 miliardi l’anno.
È comunque difficile, però, che il potenziale di crescita di social network e compagni sia infinito. Anche perché quasi tutte le aziende che ne fanno parte hanno un business model fondato sulla vendita dei dati degli utenti al marketing e sulla pubblicità. Settori che non hanno una ricezione infinita. Innanzitutto perché esistono dei budget pubblicitari stabiliti dalle aziende, che tendono a diminuire in presenza di un clima economico negativo. E poi perché esiste un limite di accettazione da parte dell’utente alla comunicazione pubblicitaria e alla distribuzione dei dati personali. Un limite che prima, o poi, potrebbe far crollare il castello costruito da finanza e social network.