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 2011  marzo 17 Giovedì calendario

E fatta l’Italia, così si sono fatti gli italiani - Lo scenario è una sorta di promontorio artificiale, un balcone sulla mostra

E fatta l’Italia, così si sono fatti gli italiani - Lo scenario è una sorta di promontorio artificiale, un balcone sulla mostra. C’è uno schermo, di fronte al quale è pronta una cornice per quelle che sembrano grandi diapositive, disposte in bell’ordine in una cassetta a fianco. Il visitatore prende una lastra, la infila nel sostegno e il gruppo di italiani in essa raffigurato si materializza sullo schermo. Il tutto sa di buon tempo antico, odora di legno, ma non è una proiezione; c’è di mezzo il solito chip elettronico. Dopo un attimo, infatti, la scena si mette in movimento: se il gruppo è di pastori sardi fotografati in un tempo immemoriale nel loro ovile, ad esempio, con uno sbuffo di polvere compare all’improvviso una capretta, qualche pastore prende vita, si alza e comincia a raccontare in giro per i pascoli la sua storia. Siamo nell’isola del mondo contadino, una delle 13 che alle Ogr raccontano 150 anni di storia e soprattutto di «italiani». «Fare gli italiani» è il titolo di questa macchina del tempo, da una frase di Massimo d’Azeglio che campeggia all’ingresso. E negli immensi padiglioni industriali a ridosso del Politecnico, dove un tempo si riparavano le locomotive, la mostra più impegnativa delle celebrazioni per il centocinquantenario passa la parola proprio a quegli italiani, del passato e del presente, la cui esistenza, oggi, sembra difficile mettere in dubbio. Lo fa inventandosi una forma di narrazione per immagini, voci, testi, che è non solo documentaria e neppure soltanto espositiva. Si propone infatti come una immensa installazione da novemila metri quadrati, dove il lavoro degli storici (Walter Barberis e Giovanni De Luna i curatori scientifici) dialoga con quello di Studio Azzurro, gruppo milanese di ricerca artistica attraverso le nuove tecnologie. È una mostra storica, ma ha un direttore «artista», Paolo Rosa; si avvale di contributi specialistici ma anche di quelli del Teatro Stabile torinese. Il risultato è uno specchio dei visitatori, una macchina del ricordo che accende nuovi ricordi. Tantissime le immagini di gruppo: per esempio quelle delle scolaresche, le «foto di classe» sovrapposte su una lavagna tecnologica dove con la mano si possono cancellare le figure arrivando a strati più antichi. Dietro i ragazzi degli Anni Settanta compaiono quelli degli Anni Quaranta, o del primo Novecento, in una fuga temporale fatta di volti che si sovrappongono, compaiono e scompaiono, possono essere organizzati in affreschi diversi ogni volta facendo convivere epoche diverse e stili diversi. Nell’isola dell’emigrazione può accadere invece che, passando sotto un enorme sacco di valigie appese al soffitto, ne cada virtualmente qualcuna sul pavimento, si apra e squaderni il suo contenuto. Ancora una volta quel che si apre è la storia di una persona, un italiano fra i tanti che cercarono un lavoro e una nuova vita lontano da casa: con i suoi oggetti e la sua voce - mediata da un attore - che si racconta. Non c’è nulla di inventato: la mostra non è un romanzo degli italiani, ma un flusso di narrazione ancorata alla cronologia che accompagna il visitatore lungo una barriera sinuosa di pannelli trasparenti. Gli spezzoni di film, le immagini, i testi sono originali o poggiano su documenti, insomma sulla ricerca storica. «Fare gli italiani» mette la storia in scena, e propone un viaggio dentro la scena della storia: quella delle immagini virtuali e quella degli oggetti materiali, per esempio i quadri a più alto valore simbolico, o i grandi sipari dei teatri d’opera. C’è quello celebre di Orvieto, da poco restaurato, con il generale Belisario che libera la città dai Goti (e andrà considerato non tanto per le guerre gotiche, ricordo affievolito degli anni di scuola, ma per il significato che aveva quando fu realizzato, nel 1864) e un altro splendido di Como, con l’eruzione del Vesuvio. Per raccontare il melodramma, collante unitario di grande importanza, c’è anche un piccolo teatro, dove schermi mobili alternano visioni di città. Ma quando gli schermi sono alzati, lo sguardo corre, nella grande caverna delle Officine Grandi Riparazioni, fino al punto più alto dove il film di una processione domina solenne il settore dedicato alla religiosità. Con qualche spettacolare sorriso: tra coloro che marciano devoti, ogni tanto, uno si alza e viene assunto al cielo. Senza tanti complimenti.