MARCO ALFIERI, La Stampa 17/3/2011, 17 marzo 2011
Il Nord senza Sud sarebbe più debole - Italiani per forza. Del Sud in questi giorni si parla in chiave rivendicazionista: un autonomismo speculare a quello leghista alla base dei movimenti di Raffaele Lombardo, Gianfranco Miccichè o Adriana Poli Bortone
Il Nord senza Sud sarebbe più debole - Italiani per forza. Del Sud in questi giorni si parla in chiave rivendicazionista: un autonomismo speculare a quello leghista alla base dei movimenti di Raffaele Lombardo, Gianfranco Miccichè o Adriana Poli Bortone. In chiave nostalgica, neo borbonica: la Napoli preunitaria che era una metropoli internazionale, aveva la ferrovia più sofisticata d’Italia, una flotta meccanizzata e industrie meccaniche e tessili. Oppure in chiave emergenziale: la Gomorra infinita di Roberto Saviano. Manca però un punto di vista sudista sul 150˚ anniversario dell’Unità d’Italia, tanto più alla vigilia del federalismo. La voce è sempre quella nordista, anche quando si parla di questione meridionale. Perché? «Negli ultimi vent’anni - ragiona Luca Bianchi, vicedirettore dello Svimez - in Italia si è affermato il paradigma leghista del Paese duale alla cui base c’è un dogma: il Sud è la palla al piede del Nord. Il Meridione è solo spreco e il Nord deve liberarsene altrimenti sprofonda pure lui». Il Nord paga, il resto d’Italia festeggia , titola La Padania. Un riassunto perfetto di questo pensiero dominante. In realtà i dati raccontano di una forte interdipendenza tra economie e territori. Se guardiamo ai flussi di prodotti manifatturieri scambiati per macroaree italiane (Stime Svimez-Irpet), la quota che dal Nord Ovest scende al Sud è pari al 37,7%, e dal Nord Est al 31 per cento. «Le imprese padane scambiano ancora molte merci col Meridione, in un mercato dove vivono e consumano 20 milioni di persone e la domanda di beni e servizi è più forte dell’offerta», spiegano i ricercatori dello Svimez. Le stesse aziende settentrionali completamente tecnologizzate, globali e integrate con il resto d’Europa, che possono permettersi di «saltare» il Mezzogiorno, per Bankitalia sono una minoranza. E ancora. «I 45 miliardi di euro annualmente trasferiti dal Centro-Nord al Sud», cioè il cuore del risentimento padano, la polizza vita del Carroccio, «hanno finanziato importazioni nette di questa area pari a 62 miliardi dall’interno e a 13 miliardi dall’estero», calcola l’economista Paolo Savona in un recente saggio pubblicato dalla rivista Formiche. «In molte regioni le esportazioni interne hanno un peso elevato: in Lombardia hanno raggiunto nel periodo 1995-2005 il 53,7% del Pil annuale. Ma su questi dati - continua Savona - si assiste a una vera congiura del silenzio». Questo significa, secondo lo Svimez, che le due Italie vanno insieme, come i carabinieri. «Il Sud cresce quando cresce il Nord. Le interrelazioni economiche sono così profonde da condizionare i risultati di ciascun territorio» ( vedi focus/1 ). Quella sudista è insomma una lettura profondamente diversa dal mainstream della Seconda Repubblica. «Quando si parla di secessione, bisognerebbe guardare prima ai numeri», riassume Bianchi. «La dipendenza del mercato economico meridionale da quello del Centro Nord resta molto forte nella subfornitura, ben oltre la quota dei trasferimenti pubblici». Per questo la crisi ha pesato molto. Eppure la lettura dei «territori separati» ha egemonizzato il discorso pubblico. Il Sud è diventato la panacea di tutti i mali del Nord. Nello stesso Piano nazionale delle riforme 2020 il governo afferma che il sistema italiano è duale: c’è un Centro Nord che funziona (è solo in difficoltà congiunturale) e un Mezzogiorno buco nero. Giulio Tremonti lo ripete in ogni occasione pubblica. «Ma è un’impostazione sbagliata perché la bassa crescita è un fattore comune», continua Bianchi. Persino la stagione dei Patti per lo sviluppo (Anni Novanta) ha risentito di questa impostazione localista. «Scomparsa la Cassa per il Mezzogiorno, non ha funzionato la strategia di far passare le risorse finanziarie direttamente attraverso le regioni, alla quale credeva fermamente Carlo Azeglio Ciampi e tutto il dipartimento per lo sviluppo guidato da Fabrizio Barca», ha scritto Stefano Cingolani su Il Foglio . Né ha dato grandi risultati il cosiddetto «modello adriatico» di piccola industria. Il Censis lo ha raccontato e santificato. Alternativo all’industrializzazione forzata e all’assistenzialismo pubblico, sembrava il naturale pendant meridionale dei distretti, invece... Invece «20 anni di retorica di piccolo è bello hanno fatto perdere una prospettiva unitaria al Paese», ragiona il professor Gianfranco Viesti. Una concessione gentile allo spirito dei tempi e al leghismo egemone. «Fermo restando il giudizio impietoso sui risultati raggiunti dalle regioni meridionali - nota Adriano Giannola, economista dell’Università Federico II di Napoli - a livello macroeconomico le performance non sono state molto diverse da quelle di reputate consorelle del Centro Nord, ottenute in regime di razionamento delle risorse» ( vedi focus/2 ). Peraltro il Nord non ha futuro se si arrocca sopra il Po, se vince la logica del localismo sopra e sotto Roma (la deriva dei mille mezzogiorni). E se il Paese non sa più pensare il Sud, non riesce nemmeno ad avere una politica sul Mediterraneo, la nostra Cina, e quando brucia il Maghreb rimane senza parole. Italiani per forza, dunque...