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 2011  marzo 17 Giovedì calendario

LA BORSA CHIUSA DIVIDE IL CAIRO

La Borsa del Cairo è in via Sherif El Saghir, vicino a Kasr el Nil Street in un bell’edifico dei primi del Novecento con qualche area di verde lussureggiante attorno; ma l’ingresso alla via è bloccato da entrambi i lati da due blindati dell’esercito con mitragliatrice puntata e due militari pronti a usarla. Un cordone di sacchi di sabbia e un grosso filo spinato impediscono di avvicinarsi all’edifico.

La Egyptian Exchange (EGX) è chiusa dal 30 gennaio, quando in soli due giorni di apertura l’indice del listino che conta oltre 200 società quotate (tra cui il gruppo telefonico Orascom e la EFG-Hermes, la maggior banca d’investimento egiziana) perse sull’onda del panico per le proteste anti-Mubarak il 20 per cento. Oggi però la Borsa oltre che chiusa è addirittura "blindata".

Che cosa è successo per giustificare un tale schieramento? Qualche centinaio di piccoli risparmiatori egiziani avevano manifestato nei giorni scorsi davanti alla Borsa perché non riaprisse le contrattazioni: temevano che i titoli avrebbero perso valore, costringendoli a rimetterci molto di più di quanto hanno investito. Perché? Presto detto: molti risparmiatori quando hanno comprato azioni hanno ricevuto una proposta aggiuntiva da parte del broker, che gli ha offerto di acquistare una quota maggiore di titoli con soldi in prestito forniti dallo stesso operatore, cioè di fare leva finanziaria. In cambio il broker ha tenuto i titoli in garanzia con l’obbligo per l’investitore di venderli - per risarcire il prestito - quando il loro valore fosse sceso al di sotto della quota prestata. Il problema è che i risparmiatori ora temono che la perdita sarà così ampia che anche vendendo i titoli non riusciranno a ripagare il prestito.

A questa situazione si è contrapposta un’altra manifestazione, questa volta dei dipendenti delle 200 società di brokeraggio, che con la Borsa chiusa non guadagnano le commissioni sulle transazioni e, alcuni, nemmeno lo stipendio. Questi ultimi esasperati da un mese e mezzo di fermo delle attività si sono scontrati fisicamente con i risparmiatori in un duello rusticano che ha costretto l’esercito a intervenire con due blindati a sedare la protesta.

Inoltre si avvicina il 28 marzo. Se entro quel fatidico giorno la Borsa egiziana non dovesse riaprire uscirebbe, per scadenza dei termini, dall’indice globale delle Borse mondiali (Global Index) senza di cui molti fondi di investimento stranieri non possono più investire in quel parterre acuendo così il ribasso e la marginalizzazione. Un vero peccato visto che il Cairo è l’unica Borsa dell’Africa del nord compresa nell’indice dei mercati emergenti di Morgan Stanley. «Tocca a tre persone decidere quando riaprire - spiega Mohamed Saeed, portavoce della Borsa del Cairo: il presidente della Egyptian Exchange, il chairman della società Misr, la centrale di clearing, e il responsabile della Financial supervisory authority, società di vigilanza dei mercati».

Il pasticcio della Borsa si inserisce in una situazione economica delicata, con Moody’s che proprio ieri ha abbassato nuovamente il rating sul debito del paese, portandolo da Ba2 a Ba3. La primavera egiziana del 25 gennaio ha lasciato una sensazione di precarietà. Chi va in questi giorni al Cairo assiste ancora a scontri violenti, manifestanti accampati a Piazza Tahrir, i copti in sit-in, la tv di stato, carri armati per le strade, la polizia ancora assente dalle strade. Ma la maggioranza della gente è tornata in ufficio, il traffico è tornato caotico, il Museo egizio e le piramidi hanno riaperto.

La cacciata di Mubarak potrebbe però provocare una vittima inaspettata: l’economia di mercato. Il premier Essam Sharaf ha incontrato recentemente i businessmen per rassicurarli. «L’Egitto resterà un’economia di mercato ma garantendo una maggior giustizia sociale», ha detto. Che vuol dire permettere la formazione di sindacati liberi e fare una riforma dei salari. Novità che pur dirompenti potrebbero essere superate dalla locale Confindustria (Eba) guidata da Hussein Sabbour con 650 associati per un totale di 350mila dipendenti. Ma a proccupare Sabbour è la campagna di stampa orchestrata dai media locali contro la corruzione dove ogni imprenditore diventa automaticamente un corrotto.

La situazione economica è fragile. Le riserve valutarie sono crollate a febbraio di 1,7 miliardi di dollari mentre il turismo è letteralmente in ginocchio. In questa situazione sarà difficile per il maresciallo Hussein Tantawi capo dei militari che guidano la transizione del post-Mubarak e per il primo ministro Essam Sharaf modernizzare in senso liberista l’economia, varare le privatizzazioni, tagliare l’elenfantiaco apparato burocratico (ci sono 500mila poliziotti nel paese su 87 milioni di abitanti) o eliminare i sussidi ai carburanti che pesano per il 5% del Pil.

L’Eba, la Confindustria locale, teme che nel breve, la tentazione sarà di «punire i capitalisti» mettendo sullo stesso piano i businessmen onesti e quelli che si sono arricchiti all’ombra di Mubarak, creando così un ambiente ostile agli investimenti stranieri e facendo scappare i capitali. Così l’Egitto perderà la vera partita che è quella di riformare la sua economia liberandola dai potentati e aprendola agli investitori internazionali.