FILIPPO CECCARELLI, la Repubblica 17/3/2011, 17 marzo 2011
MAZZINI, LE PASSIONI DEL PATRIOTA ESILIATO COSÌ INFELICE COSÌ TELEGENICO
Non sarebbe piaciuto per niente a Giuseppe Mazzini, detto Pippo, questo estenuante centocinquantesimo dell´Unità, lo sventolio posticcio dei tricolori, la retorica attempata e forzatamente pop. Non era tipo, oltretutto, da festeggiamenti. Alto, magro, pallido, malaticcio fin dall´infanzia, sempre vestito di nero, anche a Carducci parve negato al sorriso: «Esule antico, al ciel mite e severo/ leva ora il volto che giammai non rise». Eppure, o forse proprio per questo, Mazzini appare fervido, intenso, ardente, fascinoso. Di sicuro telegenico, come lo fulmina D´Annunzio: «Esule smorto tutto fronte e sguardo». Nelle foto, in effetti, gli occhi puntano in basso, il che accresce in eguale dismisura nobilissima solitudine e accurata presenza di scena.
Infelice e precoce, al giorno d´oggi si direbbe un bambino prodigio. A sette anni salutato da un parente come: «Una stella di prima grandezza che sorge brillante di una luce per essere ammirata un giorno dalla colta Europa». Mandato invero piuttosto impegnativo da assolvere: Pippo ce la farà anche, ma che fatica, che dolore e che follia morire senza averne nemmeno il sospetto! La madre lo sommerge di amore soffocante, si aspetta da lui un´umanità migliore. Sacerdoti giansenisti gli friggono l´anima. Diciassettenne conosce a memoria Le ultime lettere di Jacopo Ortis, non esattamente uno spasso. A venticinque, dopo i primi moti, la prima galera, la prima delusione causatagli dalla Carboneria, gli propongono la seguente e graziosa alternativa: o il confino o l´esilio. E se ne va in Svizzera, da quel momento cominciando a girare per l´Europa come una mesta trottola, esiliato a vita.
Relazioni sentimentali per lo più turbolente, figli incerti, abbandonati, morti bambini. Ha più fiducia nelle donne che negli uomini, però non ha tempo per la famiglia e rimarrà scapolo. Fra Londra e Lugano aspettano Pippo tempeste di dubbi e tentazioni suicide risoltesi in duro ed eroico ascetismo. L´asma gli dà rara tregua. Miseria e debiti, neanche a dirlo: in Inghilterra il più intellettuale dei cospiratori, piccolo grande protagonista dei salotti, arriva a mettere su per un brevissimo periodo un piccolo commercio di prodotti alimentari con l´Italia.
Nel frattempo si occupa di Dante e senza alcun guadagno recupera con piena coscienza di filologo il commento di Foscolo alla Divina Commedia. Studia Goethe, Hugo, conosce ed è stimato da Carlyle. Adora anche la musica, sogna una fusione tra quella tedesca e l´italiana, ne scrive anche in una specie di trattato filosofico. Eclettico, elitario, poliglotta, attrae signore di ogni nazione e giovani italiani che vogliono passare all´azione. Intuisce il sorgere della questione operaia. Ma soprattutto pensa in grande, vede lontano, collega fuochi di rivolta dalla Polonia alla Sicilia. L´Italia è un´entità remota e insieme vicinissima. Quando finalmente ritorna in patria a guidare la Repubblica romana, non avrà mai una casa, né una città sua.
Infervorato per natura e vocazione, si abbandona a tutto ciò che è Spirito: fede, virtù, sacrificio, apostolato, dovere. La res publica è per lui energia benefica e profetica, fratellanza universale e vivificante, sempre un Dio tutto personale riscalda i suoi pensieri e attraversa le sue opere non di rado facendole sconfinare in un campo che sembra quello di un riformatore religioso. Carlo Marx lo designa: «Il nuovo Maometto», e non è un complimento. Garibaldi si sente superiore, teorizza che Mazzini non conosce il popolo, né quest´ultimo conosce lui. Cattaneo e i moderati ne diffidano. L´ateo Bakunin sprezza il suo patriottismo, l´utopia spirituale, la difesa della famiglia e della proprietà privata. I cattolici sono incerti tra il considerarlo un eretico o un mezzo demonio. Cavour lo perseguita, ma non solo lui.
Dovunque si trovi, ha sempre spie e delatori alle calcagna; e dietro le spalle, insieme ai tanti fallimenti rivoluzionari e alla repressione che ne segue, avverte anche l´ombra del sospetto di aver mandato al macello decine, anzi centinaia di seguaci, alcuni quasi adolescenti. Ma lui stesso ha dovuto vedersela con un paio di condanne a morte. Il 20 settembre del 1870 lo coglie, ormai 65enne, dentro il forte militare di Gaeta. Senza volerlo, è il conte e poi principe di Metternich che in vena autobiografica compone di Pippo uno splendido e forse anche veritiero epitaffio: «Ho dovuto combattere contro il più grande condottiero, Napoleone; mi è riuscito di mettere d´accordo imperatori, re, uno zar, un sultano e un papa. Ma nessuno sulla faccia della terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo italiano, emaciato, pallido, straccione, ma facondo come l´uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante, infaticabile come un innamorato».
È il più sconfitto dei vincitori, un pessimista ragionevole e romantico: cristiano senza Chiesa, patriota deluso dalla sua stessa Patria, rivoluzionario tenuto a distanza dai socialisti rivoluzionari, cospiratore ormai per abito mentale, per abitudine, con documenti falsi e doppie identità. Quando muore, a Pisa il 10 marzo 1872, è il dottor Brown e anche in seguito la sfortuna continua a tormentarlo, senza requie. C´è prima un turpe e patetico merchandising di foto sul letto di morte; poi un forzato ritardo nella partenza del treno che deve portarlo a Genova, per evitare che arrivi il giorno del compleanno di re Vittorio Emanuele; infine c´è l´idea bislacca e la cialtrona realizzazione di pietrificarne la salma, simbolo di laica e scientifica immortalità da contrapporre alla Chiesa e alle sue reliquie.
Lui, Pippo, che aveva chiesto esequie riservate. Lui che voleva stare solo vicino alla madre. Lui che l´eterno riposo della volontà e delle passioni se l´era talmente guadagnato da potersi permettere il lusso di un ricordo affettuoso, senza follia e senza retorica.