Pietro Saccò, varie, 16 marzo 2011
PATRIMONIO D’ITALIA, PER VOCE ARANCIO (NON PUBBLICATO)
Secondo gli ultimi calcoli della Ragioneria di Stato – riferiti al 2008 – il nostro Paese ha un patrimonio che vale 619 miliardi di euro. Se da un lato è facile calcolare il patrimonio dello Stato quando si parla di crediti, monete nelle casse pubbliche, partecipazioni in società, le cose si complicano quando bisogna dare un valore a palazzi storici letteralmente inestimabili, come il Quirinale o il Colosseo. Le stesse difficoltà s’incontrano con i monumenti e gli oggetti d’arte che, non essendo in vendita, sono difficilissimi da valutare in termini monetari.
E quasi impossibile è valutare come fossero titoli azionari le prime tre “categorie” dei beni immobili del Demanio: la n. 1 è “lidi, spiagge, porti, rade, lagune, foci dei fiumi che sboccano in mare ecc.”; la n. 2 è “ spiagge lacuali e relative pertinenze ecc.”; la n. 3 “fiumi, torrenti, nonché tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, ecc.”. Poi ci sono le ferrovie, le grandi strade, gli acquedotti, i terreni, le foreste, le montagne. Tutti patrimoni che non si possono vendere e quindi quasi impossibili da valutare. Ad aggiungere difficoltà alla questione (come non fosse già sufficientemente intricata) c’è il fatto che un censimento per intero del patrimonio pubblico non è mai stato fatto.
Comunque, secondo i dati della Ragioneria, quei 619 miliardi di patrimonio sono fatti di 486 miliardi di attività finanziarie e di 132 miliardi di altro. Nei 132 miliardi di altro ci sono 30 miliardi di euro in case ed edifici, tre miliardi e mezzo in strade, 1,3 miliardi in mobili, cinque miliardi in macchinari, altri cinque miliardi in mezzi di trasporto, 108 milioni in libri, 20 miliardi in equipaggiamenti da guerra e altri 15 miliardi in armi. Gli oggetti d’arte dello Stato valgono in tutto 19 miliardi di euro.
Quelle che la Ragioneria chiama le “attività non finanziarie non prodotte” valgono invece, tutte assieme, 3,8 miliardi. Dentro questa voce ci sono terreni, acque, spiagge, parchi naturali. L’ammontare complessivo sembra un po’ scarso.
Si può chiedere, insomma, quanto vale una montagna? Sì, anche se non è detto che una risposta arrivi, perché la stragrande maggioranza delle montagne italiane non è mai stata valutata. Ma a quanto pare le montagne valgono pochissimo, se è vero che nell’elenco dei beni demaniali che lo Stato centrale è pronto a cedere (a titolo gratuito) agli enti locali, alcune cime delle montagne più prestigiose d’Italia, le Dolomiti (patrimonio dell’umanità, secondo l’Unesco) hanno prezzi alla portata di tutte le tasche: il più caro sarebbe il monte Cristallo, valutato 259 mila euro, ma Tofane e Rocchette assieme già scendono a 175 mila e il Faloria con il Sorapiss a 22 mila. La Croda del Becco, il Col Rosà, il Lavinores e la Croda d’ Antruiles, un quartetto nel parco d’Ampezzo, valgono insieme 11.929 euro. Meno di una Grande Punto.
Una casa a Cortina ha un prezzo medio compreso tra i 17 e i 23mila euro al metro quadro. Comprare la montagna sarebbe più conveniente che puntare allo chalet. Se non fosse che quelle cime non sono in vendita, perché saranno assegnate gratuitamente agli enti locali della zona se questi presenteranno un valido progetto per il loro utilizzo.
Nel pacchetto dei beni a disposizione degli enti locali per il federalismo demaniale ci sono 10 mila terreni e altrettanti immobili, 5 mila chilometri di spiagge, 234 corsi idrici, 550 chilometri quadrati di specchi lacustri. È un sacco di roba valutata complessivamente 3,2 miliardi di euro. Un patrimonio che oggi non rende praticamente nulla: secondo il Demanio 237 milioni di euro, ai quali vanno sottratti i costi di manutenzione (sconosciuti pure quelli). Cedendoli a Regioni ed enti locali lo Stato non ci rimetterà nulla, perché ridurrà i trasferimenti a chi li prenderà in carico per una somma pari a quella rendita (per giunta risparmiando sui costi di manutenzione).
Chi ha visto quelle liste del Demanio, disponibili on line, è rimasto impressionato. Sono elencati, ognuno con il suo prezzo (simbolico) a fianco, luoghi come il mercato di Porta Portese, i fari di Mattinata sul Gargano, di Punta Palascia a Otranto e lo Spignon di Venezia, l’isola di Santo Stefano che fronteggia Ventotene e dove è pressoché intatto il carcere in cui vennero rinchiusi tanti patrioti, le Mura degli Angeli a Genova, l’ex Forte Sant’Erasmo a Venezia, gli isolotti vicini alla Maddalena, l’ex ferrovia della Roma-Napoli, l’ex campo prigionieri di guerra di Ragusa, un pezzo di spiaggia a Sapri, la spiaggia del lago di Como, gli ex aeroporti di Bresso (Milano) e Bagno Piana (L’Aquila), l’ex base missilistica di Zelo (Rovigo), i rifugi anti-aerei di Siena.
Quando ha valutato in 3,2 miliardi di euro tutti quei beni pubblici, il direttore dell’agenzia del Demanio, Maurizio Prato, ha spiegato che si tratta di una «quota irrisoria» del patrimonio pubblico. I valori, ha lasciato capire, sono virtuali. Più o meno come quando, una dozzina di anni fa, l’ex ministro Giuseppe Guarino – titolare delle Partecipazioni statali nel governo Amato del 1992 – immaginò di sanare il debito pubblico italiano attribuendo a una società da costituire l’intero patrimonio pubblico, che poi sarebbe stato piazzato sul mercato. In quell’occasione la stima fu di 1500 miliardi di lire, che in quel momento bastavano a coprire tutto il nostro debito.
I calcoli reali guardano invece i flussi di cassa che quel patrimonio sa generare. E dicono che il demanio marittimo rende allo Stato 97 milioni di euro l’anno, cioè 190 euro per ogni 100 metri di spiaggia, le miniere fruttano appena 347 mila euro l’anno, mentre dai canoni di concessione per l’uso delle acque pubbliche si ricavano 2,7 milioni, meno di quanto si guadagna dalla gestione dei beni confiscati alle mafie (2,8 milioni).
Anche i monumenti non sono in vendita, però valgono. La Camera di commercio di Monza e Brianza ha applicato ai monumenti il principio del Brand Index di Simon Anholt, famoso consulente politico indipendente americano, per determinare quando valgono, a livello di “brand”, le più celebri attrazioni italiane. E ha scoperto che il monumento italiano che, nei parametri utilizzati, assume il valore più alto è il Colosseo, un marchio del valore di oltre 91 miliardi di euro. Appena dietro, i Musei Vaticani, valutati circa 90 miliardi. Terzo posto per il Duomo di Milano, con 82 miliardi. Il solo “brand” della Fontana di Trevi, venduta nel film “Tototruffa ‘62” da Totò a Decio Cavallo, un turista italo-americano, per 10 milioni di lire vale oggi 78 miliardi di euro. Gli altri monumenti storici italiani presi in considerazione sono gli scavi di Pompei (20 miliardi), la basilica di San Marco (16 miliardi) e gli Uffizi di Firenze (12 miliardi).
La società Brand Finance, specializzata nel campo della valutazione dei brand commerciali, ha applicato i principi di Simon Anholt per valutare il “valore delle nazioni”. I calcoli si basano sul principio delle royalties, che consiste nel restituire il valore monetario di un marchio in base ai diritti di proprietà intellettuale che un’impresa pagherebbe a una nazione per avere l’esclusiva di sfruttamento del suo marchio.
I risultati dicono che il marchio Italia vale 2.811 miliardi di dollari, cioè il 167% del nostro Pil. Un valore che ci colloca in sesta posizione nella classifica mondiale, guidata dagli Stati Uniti (il brand Usa vale 17.893 miliardi di dollari) in compagnia di Giappone (6.205 miliardi) e Germania (4.582). Davanti all’Italia anche Francia (3.475 miliardi) e Francia (2.922). Dietro di noi la Spagna (1.758 miliardi), ma anche il Canada (1.106), l’Australia (821) e i Paesi Bassi (792).
Nelle sei “dimensioni” usate per definire il valore del marchio Italia siamo primi al mondo alla voce “turismo”, secondi in “cultura” e terzi in “persone”. A sostenere il brand Italia c’è ovviamente l’enorme patrimonio artistico e culturale nazionale. Secondo la casa di consulenza PricewaterhouseCoopers abbiamo oltre 3.400 musei, circa 2.100 aree e parchi archeologici e 43 siti Unesco. Nonostante questo dato di assoluto primato a livello mondiale, scrive PwC, il RAC, indice che analizza il ritorno economico degli asset culturali sui siti Unesco, mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, hanno un ritorno commerciale pari a 16 volte quello italiano.
A fronte della ricchezza del patrimonio culturale italiano, rispetto alle realtà estere esaminate, emergono enormi potenzialità di crescita non ancora valorizzate. In particolare, le stime di PwC dicono che l’economia turistica e il settore culturale e creativo contribuiscono al Pil dei principali paesi europei in media per il 14%. L’Italia con il 13%, circa 203 miliardi di euro, è lontana dal 21% della Spagna. I ricavi complessivi da bookshop per i musei statali italiani sono pari al 38% del solo Metropolitan Museum, di dimensioni simili al solo Louvre (poco più di 20 milioni di euro annui).
Dice Giacomo Neri, partner in charge della Financial Services Practice di PricewaterhouseCoopers Advisory: «Investendo nell’ambito di pochi ma prioritari settori, quello del turismo, del merchandising artistico in alcuni servizi collegati (alberghi, ristorazione, viaggi, ecc…), è possibile dare avvio a un processo virtuoso che coinvolgerebbe, con ricadute positive, tutta una serie di settori sinergici quali agricoltura, infrastrutture, artigianato, industria ed altri servizi».
Una migliore gestione potrebbe iniziare da una maggiore chiarezza. Ad esempio definendo una volta per tutte cosa è di chi. Non è un lavoro facile. Ancora oggi lo Stato e il comune di Firenze litigano sulla proprietà del David di Michelangelo. Da Firenze giurano che la statua è loro, da Roma il ministero dei Beni culturali sostiene che il David invece è suo. Chi la spunterà avrà diritto alla decina di milioni di euro che ogni anno i turisti versano per ammirare il capolavoro conservato alla Galleria dell’Accademia.