Paolo Isotta, Corriere della Sera 16/03/2011, 16 marzo 2011
IL VERDI POPOLARE DEL «NABUCCO»
La «prima» del Nabucodonosor di Verdi, avvenuta sabato 12 marzo al Teatro dell’Opera di Roma, è stata, com’è giusto in questi momenti terribili per la nostra identità nazionale, ossia per la cultura, è stata, dico, costellata da appelli a difesa di una creatura quasi ammazzata. Si è dapprima espresso con tono vibrante il sindaco della Capitale, Gianni Alemanno. Lo stesso Riccardo Muti ha dal podio pronunciato poche parole; e sebbene egli sia convinto che il celebre coro Va’ pensiero mai potrebbe fungere da inno, espressione com’è della sconfitta e della desolazione di un popolo, pure s’è richiamato a quel verso ove si parla di «mia patria sì bella e perduta» per ricondurre all’immagine di un’Italia che sarà bella e perduta se priva del suo principale patrimonio. Cadono in questi giorni ricorrenze risorgimentali; dei rapporti storico-obiettivi tra il Nabucco e il Risorgimento s’è sempre parlato, tant’è che la stessa indimenticabile regia di Luca Ronconi al Maggio Musicale Fiorentino del 1977, già direttore e concertatore Muti, metteva nella più plateale e ironica maniera in evidenza tali rapporti; presupposti rilevanti in sede storica e di storia sociale, in nulla afferendo ai valori estetici della partitura. I quali son forti, giacché Verdi è qui riuscito al miracolo di scrivere un’Opera popolare che non fosse volgare, e ch’è anche a modo suo dotta, salvo l’insopportabile profluvie dei piatti e della cassa e piatti; e ch’è tutta attraversata di echi rossiniani e (meno lo si è notato) donizettiani (Anch’io dischiusa un giorno di Abigaille). Uno dei modi per farla risonare non plebea è nella prospezione del ritmo e del timbro, che hanno da essere attentamente commisurati. Riccardo Muti produce un timbro cristallino e trasparente con ritmi frizzanti: frutto di una concertazione attentissima per ottenere l’omogeneità delle voci orchestrali, specie in apparenti piccolezze come l’anacrusi e l’esatta durata di un punto; per poi raccogliere i luoghi gravi e oscuri nella medesima trasparenza, come nell’assolo dei sei violoncelli. Egli poi ha una capacità straordinaria di far cantare il coro, e non ricorro qui all’ovvio esempio del Va’ pensiero ma al mendelssohniano inno finale. Il protagonista assoluto del dramma è Leo Nucci. Autorevole, timbrato, sobrio. Ma come si trasforma dopo aver pronunciato le parole «Non son più Re, son Dio» . Il fulmine che lo colpisce è interiore, ed egli assume la postura esatta di chi sia attinto da emiplegia: metà della figura si rattrappisce in sé, le mani tremolando finché non piomba a terra come un leone ferito a morte. Gli sorton di bocca ruggiti, conati di ruggiti, lamenti, strazii. Poi, con qual purezza e sostegno di fiati pronuncia Deh perdona e Dio di Giuda... La regia di Jean-Paul Scarpitta, peraltro colpito durante le prove da un fiero infarto che l’ha portato in rianimazione, è minimalista e vacua insieme e ridondante. Che ci faranno mai quei paraventi cinesi che attraversano il palcoscenico nella barbara Assiria? Il punto debole della compagnia di canto è nella deuteragonista, Abigaille. Costei, Csilla Boross, non è un soprano drammatico di coloratura ma un qualcosa d’indefinito che la coloratura ignora e, mal registrata, con un’intonazione da casa del diavolo, ricorre ai vieti trucchi quando si tratti di cantar piano. Il resto della compagnia è autorevole. Il giovanissimo tenore Antonio Poli pare una vera promessa; Dimitry Beloselskiy d o n a p r o f o n d i t à e profeticità interiori e vocali al ruolo di Zaccaria; Anna Malavasi è una squisita Fenena; Erika Grimaldi si assume il ruolo tanto poco appariscente quanto ingrato di Anna, e i concertati ov’ella partecipa filano come una nave con vento felice.