Nicola Porro, il Giornale 13/3/2011, 13 marzo 2011
Il vecchio modello è superato O si cambia o si finisce male - Cosa è diventata la fabbrica in Italia? Chi sono i nuovi operai? Che fine ha fatto la cultura operaista? Tutto è cambiato nell’organizzazione del lavoro dell’impresa globalizzata, eppure continuiamo a ragionare con i termini e gli schemi mentali di un’industria che non c’è più
Il vecchio modello è superato O si cambia o si finisce male - Cosa è diventata la fabbrica in Italia? Chi sono i nuovi operai? Che fine ha fatto la cultura operaista? Tutto è cambiato nell’organizzazione del lavoro dell’impresa globalizzata, eppure continuiamo a ragionare con i termini e gli schemi mentali di un’industria che non c’è più. Il caso più eclatante è stato quello della Mirafiori di Sergio Marchionne. Un luogo simbolo che negli anni d’oro impiegava più di 55mila operai; poi sono arrivati i robot, la Cina, ma anche la Serbia, e oggi sono poco più di 5000: è dieci volte più piccola. Insomma la fabbrica simbolo dell’operaismo italiano non c’è più.Non esiste nella sua dimensione storica. Nella sua portata sociale: in quell’affanno culturale che rivoluzionava la città, inurbava i contadini, integrava i meridionali e creava una cultura sindacale. Mentre la fabbrica scompariva, la politica, in senso lato, non intercettava la rivoluzione. Le relazioni industriali, come ancora si chiamano i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, sono radicalmente cambiate nei fatti, ma non nella forma della loro rappresentanza. La fabbrica, così come l’abbiamo conosciuta è morta, ma la sua cultura pansindacale,a quarant’anni di distanza pretende ancora di conformarsi ad un modello scomparso. Se non si scioglie questo equivoco, si distruggono le legittime aspettative degli operai di oggi. Intorno alla fabbrica si è dunque costruita un’industria del consenso, fatta di parole d’ordine e di rivendicazioni che oggi rappresentano solo una minoranza. Basti pensare, appunto, al caso Mirafiori. Il referendum imposto da Marchionne ha decretato la sopravvivenza del sito produttivo solo grazie al voto di una minoranza di operai. La maggioranza infatti non ha potuto votare e ha subito ( per fortuna con esito positivo) la scelta di pochi. Si è ribaltato infatti il rapporto tra fabbrica e fornitore. La fabbrica è diventata un cuore produttivo, che si alimenta grazie al lavoro di molte botteghe satellite. Che hanno tutele spesso diverse e nessun referendum sindacale a cui appellarsi. L’industria in senso stretto si è specializzata: è passata da un modello di «faccio tutto io», ad uno schema «mi faccio fare ciò che mi serve». Il livello qualitativo delle competenze è inevitabilmente salito e di pari passo è generalmente aumentata la consapevolezza da parte degli operai di lavorare non con un padrone, ma con un imprenditore-manager. La lotta di classe ha lasciato il posto a quella per la sopravvivenza. Il mercato ha avvicinato il«padrone»all’operaio. Gestiscono la stessa impresa e non c’è rendita che li divida negli interessi. A questo aspetto banalmente economico della rivoluzione modernizzante del rapporto fabbricaoperai- padroni, se ne deve sommare però un altro. Scompaiono (si fa per dire) gli operai di cultura tradizionale e aumentano i post- operai. Il loro ambiente non è più l’industria, ma il settore dei servizi. Il fordismo delle catene di montaggio viene sostituito dal fordismo dei call center. La ripetitività del lavoro passa dal manuale al verbale. La dimensione dell’opificio non è più quella del capannone, ma quella dell’open space.I giovani sono sempre la forza lavoro d’elezione. Ma a differenza del passato, sulla carta, il loro livello di istruzione è superiore. Ha ragione, quanto ha ragione, la professoressa Paola Mastrocola quando nel suo bel libro Togliamo il disturbo invita a una riforma della scuola che sia più alta e selettiva da una parte, e meno ossessionante per chi non voglia studiare dall’altra. Ha ragione quando ci ricorda che oltre alla necessità del sapere (e sapere bene) per molti sarebbe più utile imparare il saper fare. Di cui oggi si sente grande bisogno. Non sarà un caso ma forse è per questo che la sola torinese Stampa ha stroncato il suo testo. Hanno evidentemente ancora in mente quella fabbrica che non c’è più e quegli operai che sono scomparsi.