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 2011  marzo 13 Domenica calendario

Il vecchio modello è superato O si cambia o si finisce male - Cosa è diventata la fabbri­ca in Italia? Chi sono i nuovi operai? Che fine ha fatto la cultura operaista? Tutto è cambiato nell’organizzazio­n­e del lavoro dell’impresa globaliz­zata, eppure continuiamo a ragio­nare con i termini e gli schemi men­tali di un’industria che non c’è più

Il vecchio modello è superato O si cambia o si finisce male - Cosa è diventata la fabbri­ca in Italia? Chi sono i nuovi operai? Che fine ha fatto la cultura operaista? Tutto è cambiato nell’organizzazio­n­e del lavoro dell’impresa globaliz­zata, eppure continuiamo a ragio­nare con i termini e gli schemi men­tali di un’industria che non c’è più. Il caso più eclatante è stato quello della Mirafiori di Sergio Marchion­ne. Un luogo simbolo che negli an­ni d’oro impiegava più di 55mila operai; poi sono arrivati i robot, la Cina, ma anche la Serbia, e oggi so­no poco più di 5000: è dieci volte più piccola. Insomma la fabbrica sim­bolo dell’operaismo italiano non c’è più.Non esiste nella sua dimen­sione storica. Nella sua portata so­ciale: in quell’affanno culturale che rivoluzionava la città, inurbava i contadini, integrava i meridionali e creava una cultura sindacale. Men­tre la fabbrica scompariva, la politi­ca, in senso lato, non intercettava la rivoluzione. Le relazioni industriali, come an­cora s­i chiamano i rapporti tra dato­ri di lavoro e lavoratori, sono radical­mente cambiate nei fatti, ma non nella forma della loro rappresentan­za. La fabbrica, così come l’abbia­mo conosciuta è morta, ma la sua cultura pansindacale,a quarant’an­ni di distanza pretende ancora di conformarsi ad un modello scom­parso. Se non si scioglie questo equi­voco, si distruggono le legittime aspettative degli operai di oggi. In­torno alla fabbrica si è dunque co­struita un’industria del consenso, fatta di parole d’ordine e di rivendi­cazioni che oggi rappresentano so­lo una minoranza. Basti pensare, appunto, al caso Mirafiori. Il refe­rendum imposto da Marchionne ha decretato la sopravvivenza del si­to produttivo solo grazie al voto di una minoranza di operai. La mag­gi­oranza infatti non ha potuto vota­re e ha subito ( per fortuna con esito positivo) la scelta di pochi. Si è ribal­tato infatti il rapporto tra fabbrica e fornitore. La fabbrica è diventata un cuore produttivo, che si alimen­ta grazie al lavoro di molte botteghe satellite. Che hanno tutele spesso diverse e nessun referendum sinda­cale a cui appellarsi. L’industria in senso stretto si è specializzata: è pas­sata da un modello di «faccio tutto io», ad uno schema «mi faccio fare ciò che mi serve». Il livello qualitati­vo delle competenze è inevitabil­mente salito e di pari passo è gene­ralmen­te aumentata la consapevo­lezza da parte degli operai di lavora­re non con un padrone, ma con un imprenditore-manager. La lotta di classe ha lasciato il posto a quella per la sopravvivenza. Il mercato ha avvicinato il«padrone»all’operaio. Gestiscono la stessa impresa e non c’è rendita che li divida negli interes­si. A questo aspetto banalmente economico della rivoluzione mo­dernizzante del rapporto fabbrica­operai- padroni, se ne deve somma­re però un altro. Scompaiono (si fa per dire) gli operai di cultura tradi­zionale e aumentano i post- operai. Il loro ambiente non è più l’indu­stria, ma il settore dei servizi. Il fordi­smo delle catene di montaggio vie­ne sostituito dal fordismo dei call center. La ripetitività del lavoro pas­sa dal manuale al verbale. La di­mensione dell’opificio non è più quella del capannone, ma quella dell’open space.I giovani sono sem­pre la forza lavoro d’elezione. Ma a differenza del passato, sulla carta, il loro livello di istruzione è superio­re. Ha ragione, quanto ha ragione, la professoressa Paola Mastrocola quando nel suo bel libro Togliamo il disturbo invita a una riforma della scuola che sia più alta e selettiva da una parte, e meno ossessionante per chi non voglia studiare dall’al­tra. Ha ragione quando ci ricorda che oltre alla necessità del sapere (e sapere bene) per molti sarebbe più utile imparare il saper fare. Di cui og­gi si sente grande bisogno. Non sarà un caso ma forse è per questo che la sola torinese Stampa ha stroncato il suo testo. Hanno evidentemente ancora in mente quella fabbrica che non c’è più e quegli operai che sono scomparsi.