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 2011  marzo 15 Martedì calendario

Il Risorgimento al Santiago Bernabeu - Dove stavi l’11 lu­glio 1982? Tutti quelli abbastan­za vecchi da ri­spondere lo san­no

Il Risorgimento al Santiago Bernabeu - Dove stavi l’11 lu­glio 1982? Tutti quelli abbastan­za vecchi da ri­spondere lo san­no. Lo sa chi a cin­que anni si è ritrovato sulle spal­le de­l padre con le trombe ampli­ficate di una vecchia Cinquecen­to che suonano il finimondo. Lo sa il pensionato che ancora lavo­rava in qualche ministero. Lo sa chi pensa che il calcio sia una ro­ba da dementi, ma quel giorno non sa perché anche lui piange­va con la mano sul petto cantan­do l’inno di Mameli. Lo sanno l’amante, la suora, la moglie, la madre, la sorella, la prostituta che continuavano a farsi spiega­re il mistero gaudioso del fuori­gioco. Lo sa chi ancora doveva nascere, perché appunto non c’era,ma ha visto una vecchia fo­to del padre con i capelli ricci e selvaggi e una bottiglia in mano e una sbornia negli occhi che as­somiglia esattamente alle sue. E si chiede se quel ragazzo stona­to abbia mai davvero avuto a che fare con quel padre poliziot­to o avvocato. La verità è che quel cavolo di mondiale non è solo una coppa del mondo. È qualcosa di strano, che non si spiega, quasi di irripetibile. La coppa alcielo l’abbiamo di nuo­vo vista, con il rigore di Grosso e la testata di Materazzi. È stato bello. È il mondiale della genera­zione precaria. Lo racconteran­no ai figli. Ma manca qualcosa. Quel giorno spagnolo fu una por­ta aperta sul futuro, una scossa, una botta di ottimismo, il sogno o l’illusione che qualcosa stava cambiando. La Germania no. La notte di Berlino è finita lì,non c’è stata l’illusione che si incarnas­se nella tua vita. È andata, come un ricordo speso in fretta. È ve­ro. Qualcuno non la pensa così. L’autore di Tutta colpa di Paolo Rossi è uno di questi. Questa vol­ta, però,davvero non sei d’accor­do con Giuseppe De Bellis. Santiago Bernabeu non è il no­me di una battaglia. Non è Solfe­rino o San Martino. Non è il Pia­ve. Non c’è sangue.Eppure quel­lo stadio, che quella notte di lu­glio tutto faceva tranne che mor­morare, è sentito come un pez­zo di terra straniera che ti appar­tiene. La televisione, ci sono i tuoi amici, le ragazze, i padri e le zie dei tuoi amici, i colori sono quelli delle origini, il bianco e ne­ro è appena passato, con il verde troppo verde dei prati e l’azzur­ro profondamente azzurro. Tut­to è avvenuto in fretta. Incredibi­le. Inaspettato. La Polonia. Pari. Il Perù. Pari. Il Camerun con la testata di Graziani e ’Nkono che inciampa o fa finta d’inciampa­re. Pari. Cabrini e Rossi mano nella mano. I giornalisti iene e il silenzio stampa. Parla solo Zoff che notoriamente non parla. Be­arzot che mastica la pipa. Dove si va con questa squadra di broc­chi e poi succede tutto. L’Argen­tina battuta due a uno, Marado­na cancellato da Gentile. Il Sar­ria di Barcellona dove si va a sfi­dare il Brasile più bello e inutile di tutti i tempi. Pablito che risor­ge. Uno, due, tre volte. I seni gial­lo oro della torcida brasiliana. Falcao che piange. Brunetto Conti che vola come un Dio o uno gnomo sulla fascia laterale. Il gol annullato ad Antognoni. La mano di Zoff che ferma la pal­la sulla riga. Gli invincibili nella polvere, l’Italia in semifinale. Due a zero alla Polonia di Bo­niek e il Santiago Bernabeu co­me altare della patria. È quasi inutile raccontare quella notte. È un film uguale per tutti. Cabri­ni sbaglia il rigore, Pertini con la mano che lo rimprovera, il re Juan Carlos che cerca di non far­lo sprofondare dalla balaustra e ancora Rossi, elettrone vagante che spunta dal nulla e mette den­­tro, l’urlo di Tardelli che ogni vol­ta che lo vedi si accende il Nes­sun dorma come colonna sono­ra e poi Altobelli con quel pugno alzato senza vigore. Fino alla fi­ne. La voce di Martellini. «Palla al centro per Muller, ferma Sci­rea, Bergomi, Gentile, evviva è fi­nita! Campioni del mondo, Cam­pioni del mondo, Campioni del mondo!!!». L’incredibile è quello che avviene dopo. Quella vitto­ria mundial strap­pa via d’un colpo il piombo degli anni Settanta, le imma­gini in bianco e ne­ro, la Renault rossa dove è deposto il ca­d­avere di Aldo Mo­ro, l’austerity e le P38, i rossi e i neri e fa sembrare meno banali perfino le facce dei ministri democristiani. Al­l’improvviso gli italiani non si sentono più fascista e reazionari a parlare di patria. Chissenefre­ga se è retorico e nazionalista, se certi discorsi li fanno solo i colon­nelli in pensione, c’è una voglia incredibile di essere orgogliosi di quello che siamo. Non più pez­zenti, non più nascosti, non più marginali. Ti viene voglia di gri­dare al mondo che queste mani hanno costruito duomi e catte­drali, che Dante è il padre del­l’Occidente, che Giulio Cesare e Marco Aurelio erano italiani. Ri­scopriamo l’orgoglio, come se quel mondiale spagnolo fosse la nuova disfida di Barletta, con Zoff e Tardelli come Fieramosca e Brancaleone. A Madrid forse non lo sanno, ma quello stadio che porta il no­me­del presidente del grande Re­al non gli appartiene del tutto. Il Santiago Bernabeu è un pezzo d’Italia.