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 2011  marzo 16 Mercoledì calendario

I “liquidatori” di Cernobil 600 mila eroi dimenticati che continuano a morire - Il loro monumento funebre, uno per tutti, è a Mitino, maxicimitero alla periferia di Mosca: un «fungo» atomico con all’interno la statua di una figura umana che allarga le braccia, in un gesto disperato, quasi a voler fermare a mani nude il disastro

I “liquidatori” di Cernobil 600 mila eroi dimenticati che continuano a morire - Il loro monumento funebre, uno per tutti, è a Mitino, maxicimitero alla periferia di Mosca: un «fungo» atomico con all’interno la statua di una figura umana che allarga le braccia, in un gesto disperato, quasi a voler fermare a mani nude il disastro. Sotto, ci sono 28 lapidi, e sotto ancora, a diversi metri di profondità, sotto una lastra di cemento, 28 bare di piombo. I tecnici e i pompieri che sono stati convocati a Cernobil la notte del 26 aprile 1986, per «spegnere un incendio», sono stati sepolti tutti insieme, in uno spazio isolato del cimitero: perfino i loro corpi erano radioattivi. Sono morti in pochi giorni, in un’agonia atroce, blindati in un’ospedale speciale di Mosca che, dopo la loro morte, è stato completamente ristrutturato. E mentre venivano sepolti, nella centrale nucleare devastata venivano inviati, da tutta l’Unione Sovietica, decine di migliaia di soccorritori: militari, operai, piloti, minatori, un po’ reclutati a forza ma molti volontari, per chiudere la voragine radioattiva che si era aperta nel sistema sovietico. Sono stati in totale circa 600 mila, e 25 anni dopo portano il loro titolo di «likvidator», liquidatore, con un misto di orgoglio e rabbia. Hanno salvato migliaia di vite, senza pensare, e spesso nemmeno senza conoscere i rischi che correvano. I soldati di leva che spalavano il bitume radioattivo dal tetto della centrale protetti solo da mascherine di garza. I piloti di elicotteri che portavano il loro carico di cemento esattamente sopra la voragine del reattore esploso, per blindarlo. I minatori che scavavano i tunnel per impedire che le acque contaminate finissero nel bacino del Dniepr. Quelli che nei villaggi spiegavano alla gente che quel sole splendente di una primavera come non se ne erano viste da tempo, era mortale, e che dovevano andarsene subito, solo con quello che avevano addosso. Quelli che in una lotta contro il tempo costruivano il «sarcofago», il super-coperchio che avrebbe dovuto coprire il reattore esploso insieme con le scorie che produceva. I tentativi di usare le macchine fallivano: troppe radiazioni, mentre gli esseri umani andavano avanti. I contatori Geiger che portavano addosso andavano in tilt dopo poche ore, e qualcuno li resettava: teoricamente, raggiunto un certo livello di radiazioni accumulate, i «liquidatori» avrebbero dovuto venire rispediti a casa, ma c’era ancora del lavoro da fare. Molti «likvidator» si erano arruolati a Cernobil per soldi, altri per l’avventura, ma il museo della centrale espone decine di lettere di persone che chiedevano di venire inviate volontarie «perché il Paese ha bisogno di me», «perché voglio essere utile». Nessuno era consapevole dei rischi, né i liquidatori, né chi li mandava nell’inferno della «Zona» di 30 km intorno al reattore. Secondo l’«Unione Cernobil», l’organizzazione che cerca di tenerli uniti, 60 mila liquidatori, uno su dieci, oggi sono morti. Ma le autorità attribuiscono soltanto un paio di centinaia di questi decessi alle conseguenze delle radiazioni assorbite. La battaglia dei liquidatori per ottenere cure, pensioni, medicine, è arrivata fino alla Corte Europea di Strasburgo. E ora hanno contro anche l’Onu, che in un rapporto del 2005 ha quantificato in 57 le morti totali attribuibili al disastro di Cernobil (secondo Greenpeace, sono almeno 200 mila) e sostenuto che in Ucraina, Russia e Bielorussia «non esiste evidenza scientifica di aumento di mortalità dovuta agli effetti di radiazione».