Marco Pasciuti, Leggo 16/3/2011, 16 marzo 2011
«NEL MIO MUSEO I FANTASMI DEL MARE»
Lihidheb Mohsen, lunedì un’altra barca di migranti si è ribaltato dopo la partenza da Zarzis: 40 morti. Davanti a casa sua.
«Lo so, ci saranno altri morti. Oggi pomeriggio (ieri, ndr) sono stato in spiaggia, non partiva nessuno. Ho visto l’esercito, la polizia, in mare c’erano le barche della guardia costiera. Ma da noi si dice così: il ladro prima o poi ha sempre la meglio su chi lo controlla. Ci riproveranno, e riusciranno di nuovo a prendere il mare».
Quanti sono?
«Migliaia, pronti a partire da un momento all’altro. E moltissimi sono quelli che organizzano la traversata. Ti tengono nelle loro case finché non si creano le condizioni giuste: tempo buono, poca polizia in giro e una barca. Ne muoiono a migliaia, di molti non si viene a sapere. Sono fantasmi».
Un giorno lei ha cominciato a raccogliere gli oggetti che il mare restituiva.
«Ogni giorno raccolgo vestiti, camicie, scarpe, tantissime scarpe: ne ho quasi 170 paia. Li metto nel mio museo, raccontano le speranze dei migranti che tentano la fortuna e non ce la fanno».
Ha mai trovato corpi?
«Sì, ne ho trovati tre».
Come è successo?
«Il primo l’ho visto da lontano, ero con i piedi nell’acqua: avevo paura di calpestare un cadavere, da giorni in paese si parlava del ritrovamento di parecchi corpi. Quando l’ho visto ho pianto e urlato. L’ho chiamato Mamadou».
Mamadou?
«Sì. La sera, a casa, ho chiesto a mia moglie di preparare una buona cena in onore di Mamadou, che non era più in balia delle onde».
Quanti siete in famiglia?
«Siamo 15. Io, mia moglie, mio figlio, mia madre e due fratelli ognuno con la sua famiglia. Viviamo insieme».
Perché ha cominciato a raccogliere gli oggetti che il mare restituisce?
«Avevo 40 anni. Mi ero allontanato dalla politica e mi sono avvicinato al mare. Vorrei che gli oggetti che portano con sé un significato di morte servissero a qualcosa».
A cosa?
«A far capire ai ragazzi che vengono a vedere il mio museo che non serve scappare. Spesso chi parte non ha bisogno di lasciare il Paese. Si lasciano abbagliare dalla vita in Occidente, in Italia, dalle sue lucine colorate, dalle sue tv, dalla promessa di una vita agiata che poi non viene mantenuta».
Perché lo fa?
«Per amore. Io faccio il postino, ho investito i miei soldi nel museo, l’entrata è gratis. Ora mi si è anche rotta l’auto, in spiaggia vado a piedi, non riesco più a percorrerla tutti i suoi 150 km come una volta».
Lei crede nel futuro?
«Credo nel cambiamento. La Tunisia ora è un paese quasi del tutto pacificato, pian piano stiamo tornando alla normalità. Ci sono ancora problemi in alcune zone, con gli ultimi focolai di proteste».
Cosa accadrà?
«Non so. Quello che abbiamo fatto è una cosa grande, abbiamo cacciato il dittatore. Ma ora viene il difficile: cambiare le istituzioni, la mentalità delle persone non è facile. Ora cercheremo nuove relazioni con i Paesi confinanti e con quelli che stanno al di là del Mediterraneo. E’ quello che cerco di fare io con gli oggetti che raccolgo sulla riva».
Cioè?
«Sono un legame silenzioso tra genti diverse che non si sono mai incontrate. Ho raccolto migliaia di bottiglie, l’85% arriva dall’Italia. Sono il segno che tra le società esiste un legame che va oltre i confini politici».