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 2011  marzo 13 Domenica calendario

L’ITALIA È FERITA MA IN CAMMINO

«Garibaldi fu ferito, fu ferito a una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion»: tutti abbiamo cantato nel cuore della nostra maliziosa infanzia questa marcetta con le licenziose variazioni sul tema, grazie alle quali abbiamo scoperto anzitempo le amarezze della censura e il gusto della disobbedienza. Allora però non sapevamo che la canzoncina rimandava all’evento forse più drammatico del Risorgimento italiano, di cui continuavamo a essere inconsapevoli propagandisti. Anzi, il nostro stesso innocente fischiettare attraverso le generazioni è il sintomo migliore di quanto quell’episodio abbia lacerato in profondità la tela pubblica italiana. E sì, perché l’Eroe dei due mondi, il generale dell’impresa dei Mille, il 29 agosto 1862, venne ferito a una gamba sull’Aspromonte dal "fuoco amico" dei bersaglieri del neonato esercito italiano, mentre si accingeva a risalire di nuovo la penisola, questa volta con l’obiettivo di conquistare Roma, capitale virtuale del Regno d’Italia dal 27 marzo 1861, e scacciare il papa Pio IX, al grido di «Roma o morte».

Un fatto d’armi durato pochi minuti e costato una decina di morti, ma dall’alto valore simbolico per il carattere di "guerra civile" subito assunto nell’aspra polemica di quanti, in Italia e all’estero, in particolare mazziniani e repubblicani, gridarono per primi e per la prima volta al Risorgimento tradito. In effetti, Garibaldi fu colpito all’anca sinistra e al malleolo destro dal tenente Luigi Ferrari, veterano della prima e della seconda Guerra di indipendenza, medaglia d’argento a San Martino nel 1859; alcuni bersaglieri, che disertarono in favore dei garibaldini, vennero fucilati. L’Eroe dei due mondi fu arrestato, ma sarebbe stato amnistiato con il suo esercito di volontari già il 5 ottobre 1862, in occasione del matrimonio di Maria Pia di Savoia con il re di Portogallo. In quei mesi turbolenti l’opinione pubblica rimase con il fiato sospeso perché i medici non riuscivano a recuperare la pallottola che aveva trapassato lo stivale di Garibaldi in quanto l’ossatura del generale, deformata dall’artrite, la nascondeva agli esami più approfonditi. Per questo motivo l’arto, sempre più gonfio, era ormai a rischio di amputazione, quand’ecco che, il 23 novembre 1862, il proiettile fu finalmente estratto: la gamba di Garibaldi era salva, l’Eroe dei due mondi abile e arruolato per combattere ancora in favore della causa italiana fino all’umiliante esilio di Caprera.

La satira sul Risorgimento che sceglie l’Eroe dei due mondi come protagonista appare il raffinato e duraturo prodotto del contrasto iniziato sui monti calabresi tra la cosiddetta storia ufficiale, quella istituzionale che si dovrebbe studiare sui libri di scuola, e la presunta storia viva e vegeta, imperniata di antiparlamentarismo e di sovversivismo (dall’alto, dal basso, da tutti i lati, poco importa) che costituisce l’anima profonda del corpaccione italiano, la costante che tutti unisce nella perenne retorica della divisione nazionale. Dire Aspromonte significa ricordare il tradimento dell’Italia ufficiale contro l’Italia popolare, l’infedeltà del "Palazzo" contro l’Italia della "società civile", e fischiettare, ancora una volta, l’eterna marcetta indignata del "Paese mancato", in cui, non si sa perché, "Italiani sono sempre gli altri".

Per questa ragione la satira garibaldina è assai perspicace: da un lato, testimonia la lunga durata di una linea di frattura fra due e più Italie e, dall’altro, si trasforma nella spia di un’impossibile riconciliazione che di generazione in generazione si riproduce per metastasi rinnovando argomenti e posture. Per fiacchezza di volontà, per opportunismo, per gusto di esibito moralismo, viene così regolata una temperatura media che costituisce da sempre il terreno di coltura ideale per il ceto intellettuale italiano, lo spazio dove far germogliare la propria inesauribile creatività militante. Tanto vale, dunque, riderci su e continuare a farlo un anniversario dopo l’altro. Non a caso, se sfogliamo le tavole di questo viaggio iconografico garibaldino, scopriamo che, grazie all’immagine dell’Italia come stivale, si gioca gran parte della tenzone satirica tutta concentrata intorno alla gamba ferita dell’eroe in camicia rossa: Garibaldi barbuto che cuce lo stivale, Garibaldi allettato con la gamba tricolore sospesa in trazione, Garibaldi ormai monumentalizzato che rimane miracolosamente in piedi su una gamba sola, Garibaldi che suona una fisarmonica a forma di stivale, Garibaldi, con il piede nudo e sanguinante, che trascina da pellegrino errante l’Italia attaccata a un bastone, Garibaldi, con il capo cristologicamente cinto da una corona di spine, che si carica sulle spalle, l’ingombrante sagoma italiana. Insomma, la gamba ferita di Garibaldi, nonostante tutto, rimane la gamba italiana: eternamente bendata, zoppicante e sorretta da due stampelle, a rischio perenne d’amputazione, eppure ancora e, come sempre, in cammino.