Gabriele Pedullà, Il Sole 24 Ore-Domenica 13/3/2011, 13 marzo 2011
SE IL VAMPIRO SCENDE IN CAMPO
L’invasione dei vampiri, letterari e cinematografici, è stato uno dei tratti più inconfondibili della cultura popolare del decennio che si è appena concluso. Twilight, True Blood, Buffy the Vampire Slayer: soprattutto per coloro che si sono affacciati all’adolescenza alla svolta del secolo il vampirismo si è fatto metafora principe di quel misto di paura e di attrazione con cui i cuccioli dell’uomo si avvicinano alla sessualità. È possibile che altri mostri, capaci anch’essi di dare una rappresentazione concreta alle nostre apprensioni, si annuncino già all’orizzonte – a cominciare magari da quegli zombie, così adatti a mettere in scena un mondo sovrappopolato nel quale gli altri incarnano una minaccia unicamente per il loro numero. Eppure, oggi, è ancora lui – il vampiro, rivitalizzato dai dieci milioni di copie della saga di Stephenie Meyer – a regnare incontrastato sugli incubi contemporanei.
Di questi vampiri (per adolescenti e non) tutto si è detto e tutto crediamo di sapere. Leopardianamente, «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte». Non è stato sempre così, in fondo? Già nel 1970, in uno studio ormai classico sulla letteratura fantastica, Tzvetan Todorov ipotizzava che nella cultura ottocentesca il soprannaturale servisse precisamente a dare sfogo a una serie di pulsioni erotiche «irregolari» che la società non tollerava fossero rappresentate in forma diretta.
Un saggio appena uscito negli Stati Uniti arriva oggi a scuoterci da queste certezze. Lo firma uno dei più promettenti comparatisti americani dell’ultima generazione, il poliglotta Erik Butler, e si intitola Metamorphoses of the Vampire in Literature and Film. L’assunto da cui muove Butler, che sotto la sobria veste accademica ha scritto in realtà un libro estremamente godibile e che si vedrebbe bene tradotto in italiano, è molto semplice: invece della psicoanalisi e degli studi di genere, la figura del vampiro guadagna a essere letta piuttosto con gli strumenti della storia e della geografia (qui esplicitamente sulla scia dei lavori di Franco Moretti).
Un titolo più accattivante, ma non meno adatto per queste pagine, sarebbe stato forse Il vampiro: una storia politica. Cominciamo allora dalla pars destruens. Non è vero, come sostenevano gli studiosi di folklore nell’Ottocento e i discepoli di Jung nel Novecento, che vampiri si trovano in ogni cultura e in ogni tempo. L’ossessione per il vampirismo ha una data di inizio ben precisa, esattamente come le sedute spiritiche, la festa di San Valentino e il costume bianco e rosso di Babbo Natale: il 1725, se consideriamo il primo documento di un ufficiale austriaco nel quale si racconta delle superstizioni delle popolazioni serbe sul ritorno dei morti, o il 1732, se invece ci riferiamo all’anno in cui una lettera analoga, sempre redatta da un ufficiale medico del corpo di occupazione, cominciò a diffondere per l’Europa la paura di un nuovo mostro dopo essere stata ripresa con grande risalto dalla stampa di lingua tedesca.
Butler ha gioco facile a dimostrare che da allora i vampiri hanno assunto le forme più diverse, compresa quella del seduttore, che non è affatto la principale anche se è su di essa che l’attenzione si è prevalentemente concentrata. Alla fine un solo tratto sembra accomunare davvero tutti i vampiri: l’incertezza sulla loro identità. Chiunque ha visto qualche Dracula o Nosferatu cinematografico sa che da un certo momento uno dei punti di forza della storia sarà l’impossibilità di sapere esattamente chi è già stato contagiato. I vampiri sono tra noi, ripetono romanzieri e registi: anche se il loro potere di seduzione non è necessariamente di natura sessuale. Butler evidenzia anzi come, sin dall’origine, caratteristico del vampiro sia piuttosto uno sconfinamento geografico e sociale. Per i Serbi del Settecento questa paura del nemico interno, che sembra un membro della comunità ma che in realtà è un morto che si nutre del sangue dei vivi, era strettamente legata all’insicurezza di un popolo diviso tra le diverse entità statuali che si contendevano i Balcani: un popolo, abituato a fare i conti con la figura del rinnegato, pronto ad abbandonare la cristianità per l’Islam e viceversa, a seconda delle convenienze del momento. Ma, anche dopo, la capacità di mascherarsi e di infiltrarsi è rimasta un tratto inconfondibile del vampiro. Secondo Butler non è affatto un caso che gran parte dei maggiori narratori di vampiri abbiano avuto alle spalle una esperienza di «emigrazione interna», dall’irlandese Bram Stoker alla mormone Stephenie Meyer.
Il vampiro obbedisce a un preciso immaginario geografico, che colloca le radici del male in un’esotica Europa dell’Est. La minaccia, in altre parole, è quella di una vera e propria invasione. Qui l’autore cala l’altra sua carta decisiva. Perché questa immediata fascinazione per la figura del vampiro nell’Occidente più sviluppato? Secondo Butler la travolgente diffusione dei non-morti dai canini affilati nell’immaginario europeo è strettamente legata alle apprensioni del mondo messo sottosopra dalla Rivoluzione francese e dalla Rivoluzione industriale. Anche se il vampiro appare sulle scene come un essere antichissimo e addirittura ancestrale, il suo successo sarebbe legato insomma alla capacità di dare voce alle più profonde insicurezze del mondo moderno, in cui i posti degli individui non sono più stabiliti una volta per tutte dalla nascita e la forza di trasformazione del Capitale sembra non conoscere ostacoli. Lo stesso vampiro, infatti, è un trasformista e un essere del cambiamento, con i suoi incerti titoli nobiliari e le sue credenziali sempre un poco sospette. Ma proprio perché compendia in maniera così perfetta le ansie generate dal crollo dell’Antico regime esso riesce a nominare la minaccia solo a patto di proiettarle all’esterno, su uno straniero e arcaizzante aristocratico dei Carpazzi.
Nei termini del grande critico marxista americano Fredric Jameson, il vampiro sarebbe insomma una proiezione dell’«inconscio politico» della modernità (anche se Butler si direbbe soprattutto un discepolo di quel Sigfried Kracauer che leggeva nell’abbondanza degli ipotizzatori messi in scena nel cinema di Weimar il preannuncio dell’avvento al potere di Hitler). E qui Metamorphoses of the Vampire ha buon gioco a mostrare come, ben prima dei romanzi e dei drammi che hanno fissato per sempre i suoi tratti fondamentali, il vampiro sia stato una figura tradizionale della satira e della propaganda politica da Oliver Goldsmith a Robert Burns e da Voltaire a Heinrich Heine, fino a Karl Marx: l’accusa più tipica da rivolgere ai propri avversari, rimproverati di succhiare le ricchezze del popolo.
Se il pregevole libro di Butler corre un rischio, è quello di dilatare troppo i propri confini. È il prezzo che pagano spesso le ricerche più radicali e innovative. Oltre ai centinaia di vampiri letterari e cinematografici analizzati con straordinaria dovizia di informazione, Butler non rinuncia infatti a includere anche figure solo parzialmente assimilabili ai suoi mostri, come certi cattivi dei film degli anni Venti di Fritz Lang e Robert Wiene o il faustiano Peter Schlemil di Chamisso. Se la storia dei vampiri è anche la storia di una metafora (come Metamorphoses of the Vampire mostra egregiamente), qualche volta Butler tende insomma a prendere le metafore sin troppo alla lettera. Basta cioè che qualcuno abbia definito «vampiro» un personaggio letterario o storico perché, in qualche modo, egli lo diventi a tutti gli effetti, guadagnandosi di diritto un posto nel libro.
Questa critica vale soprattutto per la parte finale, quando per esempio Butler sembra concedere troppo affrettatamente il proprio consenso all’identificazione dei succhiatori di sangue contemporanei con gli avamposti del capitalismo americano proposta nel pieno degli anni Settanta da Julio Cortazàr in Fantomas contro i vampiri multinazionali. Prova, forse, che del proprio tempo (e delle sue passioni) non è possibile parlare con lo stesso distacco che ci ispirano le lotte di duecento anni fa. A meno che, invece, non si voglia considerare proprio la perplessità che provoca l’inclusione di questa o di quella figura nella famiglia dei vampiri come l’ultimo colpo di bravura di Erik Butler: lo stratagemma per ricordarci ancora una volta che, con la genia di Dracula e di Nosferatu, i confini non possono che rimanere quanto meno incerti. La conferma, insomma, che l’eterna politicità del vampiro, che non smette di interrogarci sulla natura convenzionale di ogni frontiera e sul suo dissolversi al primo raggio di sole della Ragione, sta precisamente nella nostra incapacità di indicarlo con assoluta chiarezza.