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 2011  marzo 13 Domenica calendario

GUERRA, AMORI E IDEALI- STORIA DI UNA FAMIGLIA ITALIANA


Non è da tutti sfogliare l’album di famiglia e trovare un antenato che muore in una guerra d’indipendenza, un altro garibaldino, uno cappellano nella guerra di Libia, un aviatore ferito nella prima guerra mondiale, fascisti e antifascisti, una nonna che si chiama Italia e un nonno che è l’autore dello stemma della Repubblica: sì, quello con la stella, la ruota dentata, i rami di ulivo e di quercia, quello stemma cui forse non facciamo più caso ma che è ancora dappertutto, sulle scuole sulle questure sui tribunali sulle sigarette.

Daniele Jalla, 60 anni, direttore dei Musei Civici di Torino, prova a dirci che la storia della sua famiglia in fondo «è uguale a quella di tante altre, una famiglia borghese». Ma a noi pare che se un regista volesse raccontare la storia d’Italia attraverso quella di una famiglia troverebbe qui un copione ideale. Le vicende che incrociano vite, amori, dolori e passioni di uomini e donne che si chiamano Jalla, Turin, Oggioni, Angelucci, Paschetto eccetera sembrano scandire i nostri primi 150 anni ancor meglio che «La famiglia» di Ettore Scola.

Gli Jalla sono valdesi. Sono a Torre Pellice dal 1651. «Si parlava occitano – racconta Daniele Jalla – anche se la lingua di culto era il francese, che è anche la lingua di famiglia fino alla generazione di mio padre. Il fascismo lo vieta, e il francese resta poi come lingua degli affetti. Ma il primo della mia famiglia ad avere un nome italianizzato è il bisnonno Odoardo, nato nel 1852. Va a Firenze e diventa direttore della casa editrice Claudiana».

Così parte la narrazione di questa famiglia italiana. Daniele Jalla, che pure è uno storico, non ha nulla di scritto: «Quello che racconto – dice – nasce solo dalle memorie orali. Tramandare la storia della famiglia alle nuove generazioni è un tratto tipicamente valdese». C’è qualcosa di antico e di commovente in questa tradizione che noi tutti abbiamo, da tempo, in gran parte perduto.

«Parto da me per cercare di spiegare quante storie, quante culture e quante diverse sensibilità si intreccino in una famiglia e quindi in un Paese. Ho due genitori valdesi. Mio padre Ferruccio è figlio di un pastore valdese – Corrado, figlio di Odoardo – e mia madre Mirella è figlia di Paolo Paschetto, il pittore che ha disegnato lo stemma della Repubblica. Nonno Paolo è a sua volta figlio di un pastore battista, Enrico, professore di lingue semitiche a Roma. Enrico sposa a Milano una donna, Luisa, dal cognome che più milanese non si può: Oggioni.

«Paolo Paschetto poi sposa una cattolica marchigiana: si chiama Italia Angelucci. Siamo nel 1911 e i matrimoni misti sono un problema. Il vescovo si oppone, ma lei riesce a ottenere una dispensa papale. Insomma. Lo vede? Valdesi, battisti, cattolici, Torre Pellice, le Marche, Roma, Milano... Lo vede quante diversità si mettono insieme in una famiglia e in una nazione? Se andiamo a guardare negli alberi genealogici, vediamo che noi italiani siamo tutti dei bastardi. Voglio dire: bastardi nel senso che diceva Sartre».

Il bisnonno, il marchigiano Francesco Angelucci, è quello che va a combattere con Garibaldi. «Viene da San Benedetto del Tronto e studia in un collegio di preti. Dal quale però scappa per raggiungere l’eroe dei due mondi a Mentana. E’ un garibaldino dell’ultima ora. Nella camera dei miei nonni a Torre Pellice, quella dove ora dormo io, sono appesi tre ritratti: Gesù Cristo, Garibaldi e il bisnonno Francesco. Sono i nostri santini».

Garibaldino e filo anarchico, amico personale di Errico Malatesta, Francesco Angelucci chiama i suoi figli Spartaco, Balilla, Menotti, Emilia, Anita, Jone e Italia. Ma a dimostrazione che spesso le speranze dei padri si rovesciano nel loro contrario, quella truppa di figli resta repubblicana e anarcoide solo all’anagrafe. Nessuno, per destino o per scelta, segue il solco tracciato dal padre. Balilla e Menotti muoiono bambini. Anita diventa suora cattolica. Jone resta zitella. Emilia sposa un Serbolonghi, che sarà gerarca fascista a Milano. Spartaco addirittura si arruola con i battaglioni che vanno a dar man forte a Franco nella guerra civile spagnola. Resta ferito nella disfatta di Guadalajara, e per i postumi di quelle ferite morirà. «Era il tipico gagà di provincia – racconta Daniele Jalla – brillantina e belle donne. Diventa seniore della Milizia perché gli piacciono le divise. Abbiamo ancora il suo spadino, le sue medaglie, foto che lo ritraggono in Spagna mentre fuma sigarette». Quanto a Italia, anche lei deve aver deluso il padre, visto che resta una cattolica devota.

Il concorso per lo stemma della Repubblica è anche quello un segno di quanto siano cambiate le cose nel nostro Paese. Viene indetto in forma rigorosamente anonima, partecipano 341 candidati che hanno un tema preciso: lo stemma deve raffigurare «una cinta turrita che abbia forma di corona». Ai primi cinque classificati vanno 10 mila lire, circa 250 euro di oggi. A Paolo Paschetto, che arriva primo, altre 50 mila lire. Il simbolo però non convince. Si fa un altro concorso, anonimo anche quello, e Paolo Paschetto lo rivince. Immaginatevi come verrebbe gesti- 0 1862 1868 1874 1880 1886

to oggi un evento del genere.

«Il ramo Jalla-Turin è tutto valdese», continua il racconto. «Parlavano in francese. Gli Jalla erano pastori e professori, molto severi e un po’ noiosi. I Turin commercianti. Louis e Adolfo Jalla diventano missionari in Africa alla fine dell’Ottocento. Adolfo è quello che compie le azioni più encomiabili, ma Louis è il più divertente: esploratore, fotogra- 1892 1898 1904 1910 1916 1922 1928 1934

fo, insomma un uomo d’avventure».

E’ invece un Turin il primo eroe risorgimentale della famiglia. Daniele Turin muore nella prima guerra di Indipendenza, probabilmente a Novara. «Era nell’esercito sabaudo, ma viene sepolto ai margini di una strada perché era valdese». I tempi però cambiano e l’Italia pure, così nel 1911, alla guerra di Libia, c’è uno Jalla pastore valdese che fa il cappellano del- 1940 1946 1952 1958 1964 1970 1976

l’esercito. «E’ Corrado Jalla, primo cappellano non cattolico dell’esercito italiano. Deve inventarsi una divisa apposta per lui».

E ancora. Giovanni Turin fa l’aviatore nella prima guerra mondiale, ha un incidente, torna massacrato da un punto di vista psicologico: «Fa il professore di filosofia e sposa un’ebrea. Nel 1938 se ne va in Argentina: è uno dei primi a capire che le leggi razziali 1982 1988 1994 2000 2006’09

sono il preludio a qualcosa di terribile. Tornerà nel 1951». Lo zio Attilio Jalla all’inizio è fascista, poi diventa liberale. Gli zii Davide e Luigi Jalla sono generali dell’esercito e dopo l’8 settembre viene chiesto a tutti e due di servire la Repubblica Sociale: Davide si rifiuta e viene internato in Germania, Luigi aderisce a Salò.

«La mia famiglia mi ha trasmesso un antifascismo più morale, più sentimentale che politico - racconta Daniele Jalla -. Voglio dire che non ho storie di particolare militanza contro il regime. Mio nonno Paolo, il pittore, era repubblicano e durante il ventennio non si iscrisse al partito. Però non ebbe particolari noie. Sa che cosa raccontano? Che qualche suo amico, per salvarlo, lo aveva iscritto al partito di nascosto. Non so se sia vero, ma sarebbe una tipica cosa all’italiana».

E infine «mio padre Ferruccio, che nel luglio 1943 viene preso dagli Alleati e finisce in un campo di prigionia in Algeria, e torna nel 1946».

Quante storie che si intrecciano. Storie di una famiglia, storie d’Italia. «L’Italia – dice Daniele Jalla – è l’insieme di tante piccole patrie e chi ha cercato di omologare tutto ha sempre fallito. Per questo sono culturalmente un federalista. Però il Paese è l’Italia». Sta lavorando a un progetto che avrà compimento il 17 marzo: Torino diventerà un museo aperto. Il progetto lo potete scoprire sul sito www.museotorino.it. «L’Unità – dice Jalla – è stata fatta a Torino. Non nel 1861 ma 100 anni dopo, nel 1961, quando la città è diventata un crogiolo di piemontesi, toscani, veneti, sardi, lucani, pugliesi. Torino è la città più italiana d’Italia».