Mario Deaglio, La Stampa 13/3/2011, 13 marzo 2011
L’ASCESA ECONOMICA DI UN (QUASI) GRANDE PAESE
Il pezzo forte dell’Esposizione Nazionale di Milano del 1881 era una torre-ascensore alta 30 metri, poca cosa se la si confronta con i grandiosi edifici in ferro che inglesi e francesi già da tempo costruivano per le loro esposizioni. Il divario era l’indizio di una dura realtà: nei suoi primi trent’anni di unità, l’Italia, a differenza dei paesi industriali europei e degli Stati Uniti, aveva vissuto una sostanziale stagnazione. Poi, inaspettatamente, la svolta: dal 1896 alla prima guerra mondiale l’economia italiana vive il suo primo miracolo, divenendo una (quasi) grande potenza economica al sesto-settimo posto nella classifica mondiale, posizione che sta perdendo ora a vantaggio del Brasile. L’energia idroelettrica è alla base di questo miracolo. Da Alessando Volta in poi, gli scienziati italiani avevano studiato accanitamente l’elettricità. La ricerca - con larghi finanziamenti pubblici - aveva prodotto, tra l’altro, la dinamo di Antonio Pacinotti (nel 1860) e il motore elettrico, frutto delle ricerche di Galileo Ferraris, nel 1885. Due anni prima, Giuseppe Colombo, con un brevetto di Thomas Edison, aveva messo su in uno scantinato milanese la prima centrale elettrica europea. Poca cosa, naturalmente, ma sufficiente a illuminare Piazza della Scala in occasione di un’altra prima: quella de La Gioconda di Amilcare Ponchielli.
I salti d’acqua, abbondanti in Italia, erano una riserva, per quei tempi immensa, di energia trasformabile in elettricità. L’energia idroelettrica - non a caso chiamata “oro bianco” - ha uno sviluppo vorticoso e svincola l’Italia dalla necessità di importare “oro nero”, ossia carbone. Le risorse così resesi libere vanno a investimenti e sviluppi in ogni settore. L’Italia sale rapidamente ai primi posti nell’innovazione industriale e nella produzione di aerei e automobili, nella chimica, nelle macchine utensili e quasi ogni settore d’industria. È nato così, all’inizio del secolo scorso, il sistema industriale italiano. Con caratteristiche molto particolari: gli imprenditori italiani preferiscono tenere in famiglia il controllo delle aziende e cercano il sostegno diretto o indiretto delle banche più che delle Borse; non amano troppo i rischi finanziari e, dove possibile, si appoggiano ai progetti pubblici, con una classe politica che, nelle alterne vicende della storia, vede l’industria come chiave dell’espansione italiana. L’industria italiana è riuscita a lungo a bilanciare abbastanza bene la città e la campagna, creando una figura di operaio-contadino in grado di tornare a lavorare nei campi durante le ferie o in momenti di crisi; a conciliare il settore pubblico con il settore privato, come mostrano i sottili compromessi che diedero vita all’Iri e a Mediobanca; a creare un sistema flessibile di grandi gruppi con uno stuolo di piccole imprese fornitrici, in grado, però, all’occasione di agire autonomamente.
La particolarità maggiore del sistema è stata però il divario, di reddito e di struttura, tra Nord e Sud. Il Mezzogiorno era un mercato troppo lontano per francesi o tedeschi e l’industria italiana, concentrata al Nord, non doveva temere la concorrenza straniera. Le debolezze del Sud (come evasione fiscale e sprechi) venivano in buona parte recuperate in quanto si traducevano spesso in domanda addizionale per le fabbriche del Nord, contribuendo così a un equilibrio di fondo, alla base soprattutto del secondo miracolo degli anni ‘50-60. Con la domanda meridionale si raggiungevano volumi di produzione tali da abbassare l’incidenza dei costi fissi, il che consentiva di competere sui mercati europei e mondiali. E dopo la seconda guerra mondiale l’immigrazione meridionale fornì alle fabbriche la manodopera per la grande espansione. Sulle stesse linee ferroviarie che portavano i lavoratori verso Settentrione, viaggiavano in senso contrario televisori, mobili, autoveicoli da loro fabbricati e acquistati dalle loro famiglie, spesso con li soldi inviati da questi lavoratori. Il sistema non ha consentito un recupero dei divari ma ne ha impedito a lungo l’allargamento, garantendo nel frattempo lunghi decenni di crescita.
Non poteva durare per sempre. Con il mercato comune europeo, l’apertura del Traforo del Monte Bianco e il completamento dell’Autostrada del Brennero l’isolamento del mercato meridionale fu rotto verso la metà degli Anni Sessanta e lentamente le imprese straniere cominciarono a erodere quote di mercato. La classe politica smise di essere consapevole dell’importanza dell’industria, prese a considerarla soprattutto come un elemento di ridistribuzione e non di produzione del reddito e accettò tranquillamente - e colpevolmente - la forte diminuzione della presenza italiana in settori chiave come l’elettronica, la chimica e la farmaceutica.
Con la crisi attuale i consueti canali del credito bancario sono divenuti più difficili. A 150 anni dall’unità politica, a poco più di cento dalla nascita effettiva di un sistema economico unitario, il meccanismo va ripensato. I cambiamenti di struttura fanno sì che l’economia italiana non possa essere ricostruita su equilibri che non esistono più. Occorre un ripensamento radicale: che il dibattito possa cominciare presto è forse l’augurio più bello per quest’anniversario.