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 2011  marzo 13 Domenica calendario

MEZZOGIORNO, LE RADICI DEL NOSTRO SCONTENTO

Nel 1861, al momento della proclamazione del Regno d’Italia, il 70% degli occupati lavorava in agricoltura, e il tenore di vita medio della popolazione era bassissimo. Oggi il 70% degli occupati lavora nei servizi, l’agricoltura assorbe meno del 4% della forza lavoro, e il nostro tenore di vita è uno fra i più alti del mondo. In mezzo c’è stato il lungo processo di industrializzazione del paese, poi la scolarizzazione di massa, l’esplosione dei consumi, la conquista di un benessere diffuso ancorché non generalizzato .

Eppure non siamo soddisfatti di noi. Un disagio sottile si è impadronito del paese, e col passare degli anni assume tratti sempre più mesti. Da dove viene questo sentimento?

Ovviamente da un mix di fattori, non ultimo il fatto che stiamo diventando un paese di vecchi, che ai giovani non offre un futuro di libertà e di autonomia, ma solo una rete di appoggi e benefit familiari, spesso fondati sul lavoro di un paio di generazioni. Ma se proviamo a guardare più indietro, ai cambiamenti strutturali dell’Italia, a me pare che il grande nodo del paese, il suo peccato originale, sia uno soltanto: la sua incapacità di risolvere la «questione meridionale». Una incapacità che, all’inizio degli anni ’90, ci ha regalato l’improvvisa trasformazione della «questione meridionale» in «questione settentrionale», con la nascita della Lega Nord e il lento ma inesorabile diffondersi di sentimenti antimeridionali ben al di là del perimetro di quel partito. Sentimenti che ora, a 150 anni dalla nascita dell’Italia, hanno un loro puntuale contraltare nel Mezzogiorno, dove il disagio per i sacrifici impo-

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100 e più 95-99 90-94 85-89 80-84 75-79 70-74 65-69 60-64 55-59 50-54 45-49 40-44 35-39 30-34 25-29 20-24 15-19 10-14 5-9 0-4

sti dal dissesto delle finanze pubbliche e dalla crisi rinfocolano i vissuti di privazioni presenti fra le popolazioni del Sud, per non parlare del revival neo-borbonico che si avverte in tanti libri recenti.

Perché l’incapacità di risolvere la questione meridionale è il nodo centrale dell’Italia di oggi?

Perché la maggior parte dei nostri guai vengono di lì. Le serie storiche del Pil procapite mostrano chiaramente che, contrariamente a quanto pensano molti storici, la questione meridionale non è stata ereditata dai Savoia, bensì in gran parte creata da essi, innanzitutto con le tasse e la politica doganale. Nei primi 90 anni della storia d’Italia, ossia dal 1861 al 1951, il divario del Mezzogiorno rispetto al resto del paese, assai modesto al momento dell’unificazione, è cresciuto ininterrottamente, con due drammatiche accelerazioni nell’ultimo ventennio dell’800 e sotto il fascismo. Poi, grazie alla riforma agraria e alla Cassa del Mezzogiorno, il trend si è invertito, consentendo al Mezzogiorno di risalire in parte la china, specie nel ventennio 1951-1971. Ma questa parziale risalita è stata attuata secondo modalità perverse: il recupero del Sud è avvenuto più in termini di reddito, consumo e potere di acquisto, che non in termini di prodotto procapite. Sicché oggi il tenore di vita medio delle regioni meridiona-

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li è comparabile a quello del CentroNord (secondo alcune valutazioni è addirittura superiore), mentre il loro contributo produttivo è drammaticamente inferiore, con un prodotto per abitante che non raggiunge il 60% di quello del Nord.

Il problema è che questo risarcimento tardivo e parziale del Mezzogiorno, per cui a una parte del paese veniva concesso il lusso di consumare, evadere il fisco, dissipare risorse pubbliche senza un apporto produttivo corrispondente, a partire dall’inizio degli anni ’70 si è fondato su un meccanismo diabolico: l’espansione senza limiti del debito pubblico. Grazie al debito e alla spesa allegra, per trent’anni la classe politica è riuscita nella doppia impresa di alimentare clientele (specie al Sud, con i trasferimenti e i sussidi) e distribuire rendite (specie al Nord, con gli alti interessi su Bot e Cct). Questo meccanismo di espansione dei ceti parassitari entra in crisi verso la metà degli anni ’80, quando la voragine del debito non basta più a nutrire il minotauro statale. Non sazia delle risorse rastrellate emettendo debito pubblico, la classe politica ora comincia a drenare quattrini anche attraverso l’aumento delle tasse. Nel giro di appena 8 anni, dal 1985 al 1993, la pressione fiscale passa dal 35% al 43%, mentre il debito pubblico, anziché diminuire, tocca il suo massimo storico, pari al 120% del Pil. Il giocattolo è definitivamente rotto. Il patto fra Nord e Sud, mediato dal ceto politico della prima Repubblica, non regge più. Spesa in deficit e tasse non bastano a sussidiare il Mezzogiorno, ma sono sufficienti a frenare la crescita delle regioni più produttive del paese, alimentando un malcontento che solo nella Lega Nord sembra trovare un (parziale) sbocco politico. Dal 1990 l’Italia, che per mezzo secolo era cresciuta di più del resto dell’Europa, comincia a crescere di meno. Poi, a partire dai primi anni 2000, entra in stagnazione. E anzi, in termini di reddito pro-capite, addirittura fa qualche passo indietro, già prima della crisi del 2008-2009.

Ma il paese non reagisce. C’è amarezza, scetticismo, disincanto, ma non c’è una risposta. Una sorta di fatalismo, un malessere sottile e impalpabile, pervade tutto e tutti. Alcuni politici provano a consolarci dicendoci che, in fondo, il Centro-Nord è allineato sui migliori standard europei, e che il problema è solo il Sud, o il Sud ad alta presenza mafiosa. Ma in un certo senso è proprio questo il problema: in Italia non c’è una reazione, una risposta, un giusto livello di allarme, precisamente perché buona parte del paese è ancora a livelli europei. Siamo cresciuti troppo in fretta nei primi 45 anni della Repubblica (fino al 1990), e stiamo declinando troppo lentamente negli ultimi 15, per accorgerci veramente del piano inclinato su cui siamo incamminati. La ricchezza che abbiamo accumulato, le nostre rendite, le risorse della famiglia e del volontariato, ci consentono di reggere ancora per parecchio tempo, non benissimo certo, ma comunque senza traumi. Andando indietro, ma senza avvedercene troppo. Sciogliendoci come un ghiacciaio che si ritira di un metro l’anno, e ogni anno non sembra così diverso dall’anno prima. Di tutto ciò possiamo continuare a incolpare la classe dirigente del paese, politici, industriali, banchieri, sindacalisti. Ma forse la realtà è più semplice: l’inerzia della classe dirigente, il suo ostinato conservatorismo, sono il riflesso del nostro attaccamento a ciò che siamo diventati, della nostra indisponibilità a rischiare e rimetterci in gioco. Più o meno divisi fra Nord e Sud, fra destra e sinistra, fra scettici e impegnati, ma unitissimi nella volontà di non cambiare le nostre vite. E’ soprattutto per questo che i nostri problemi sono sempre lì, primo fra tutti quello dei rapporti fra ceti produttivi e parassitari. Un nodo la cui mancata soluzione ha ucciso la crescita, vent’anni fa. E ora, per responsabilità di tutti, rischia di compromettere il futuro.