Stefano Agnoli, Corriere della Sera 13/3/2011, 13 marzo 2011
La battaglia dei superpompieri con l’incubo di Chernobyl - L’Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese li chiama «superpompieri»
La battaglia dei superpompieri con l’incubo di Chernobyl - L’Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese li chiama «superpompieri» . Sono gli unici che possono avvicinarsi e lavorare nei pressi del reattore numero uno di Fukushima. Tute, protezioni di sicurezza, segnalatori di radiazioni e, soprattutto, rapidi cambi di turno ed esposizioni ridotte al minimo. Il loro compito è tutto sommato semplice: raffreddare la struttura, a ogni costo, per evitare guai peggiori. Ma se si superano i 100 millisievert— più o meno come esporsi a 100 radiografie — i danni da radiazione possono farsi seri. Se si va oltre i 6 mila millisievert, assorbiti in una sola settimana, la sopravvivenza è praticamente impossibile. Insomma, per i superpompieri giapponesi la faccenda suona assai delicata. Non è possibile, per ora, sapere a che livello di radiazione si sia arrivati a Fukushima. Le autorità rassicurano: dicono che vicino al reattore si è rilevata la presenza di Cesio 137 e Iodio 131, ma che i livelli sono in diminuzione. Se così fosse, la situazione sarebbe simile a ciò che accadde a Three Mile Island il 28 marzo del 1979 (dodici giorni prima sul grande schermo era apparso Sindrome Cinese con Jane Fonda, Jack Lemmon e Michael Douglas). Se la realtà si presentasse diversa, e peggiore, ci si avvicinerebbe piuttosto al disastro di Chernobyl di sette anni dopo. Lì i superpompieri erano «semplici» vigili del fuoco dell’allora Unione Sovietica, provenienti dalla vicina città di Pripyat, e lo scenario che si trovarono davanti era a dir poco apocalittico. L’Europa occidentale avrebbe saputo solo due giorni dopo che all’una e ventitre minuti, nell’impianto di Chernobyl, erano avvenute due esplosioni. La prima di vapore, causata da un test errato, che distrusse il nocciolo e sollevò il coperchio di acciaio della centrale, del peso di duemila tonnellate, facendolo ricadere di fianco dentro l’edificio. E poi una seconda, due o tre secondi dopo, per la reazione dell’idrogeno con l’aria. Entrambe causarono una pioggia di combustibile radioattivo, di parti del nocciolo e della struttura, e di grafite incendiata. Già dalle prime ore del mattino circa 250 pompieri «semplici» accorsero, e i primi fuochi furono domati. Ma poi si infiammò la grafite dei moderatori, il materiale che serve per controllare la reazione. Un incubo: gli incendi da grafite durarono 9 giorni, durante i quali circa 1.800 voli di elicottero, in mezzo alle colonne di fumo che trasportavano in alto gli elementi radioattivi, scaricarono sul reattore cinquemila tonnellate di materiali vari: boro, piombo, dolomite, sabbia, fosfati, polimeri liquidi. Tutti i pompieri «semplici» esposti per ore a radiazioni superiori di migliaia di volte alla dose «normale» di un anno morirono pochi giorni dopo. Poi arrivarono, nel corso degli anni successivi, circa 600 mila volontari per le operazioni di bonifica. Li hanno chiamati «i liquidatori» , e una contabilità precisa sulle loro condizioni di salute non è forse neppure più possibile. A Fukushima, ripensando a quel tragico passato, i superpompieri giapponesi restano pur sempre degli eroi.