Piero Ostellino, Corriere della Sera 12/3/2011, 12 marzo 2011
MA I MAGISTRATI NON SONO TASSISTI
Spettacolo indecoroso, se non fosse anche e soprattutto inquietante, quello di certi magistrati che — prima ancora che fossero noti i termini della riforma della Giustizia — già organizzavano la controffensiva, pensando di ricorrere addirittura allo sciopero. Se il Giudiziario è, come dice la Costituzione e pretendono i suoi stessi attori, un potere dello Stato— e non un gruppo di interesse analogo ai tassisti, che minacciano sfracelli ogni volta si profili un aumento delle licenze — dispone di canali istituzionali attraverso i quali fare valere, di fronte al Parlamento e al governo, le proprie ragioni; e ha la possibilità, inoltre, di ricorrere alla Corte costituzionale se ritiene che una legge che lo riguardi sia incostituzionale. Dopodiché, espletate le procedure previste, prima e dopo la promulgazione della riforma, dovrebbe attenersi alle decisioni del Parlamento e parlare, come si suol dire, solo attraverso le proprie sentenze. Dunque, spettacolo indecoroso quello di un potere dello Stato che minaccia di contestare il processo de jure condendo e, poi, persino il principio de jure condito, degli altri due poteri come un qualsiasi sindacato di lavoratori dipendenti o una qualsiasi corporazione di lavoratori autonomi che difendono i propri interessi. Forse, certi magistrati dovrebbero decidersi cosa vogliono essere: un potere dello Stato, dipendenti pubblici o lavoratori privati? Anche, e soprattutto, spettacolo inquietante, perché indice di un tasso di degrado e di delegittimazione delle istituzioni che mina le basi stesse della nostra democrazia. Qui, non è in gioco la riforma della Giustizia, quali ne siano i contenuti, comprese le eventuali distorsioni delle quali si occuperanno la Dottrina e gli Organi costituiti alla bisogna; qui è in discussione la credibilità dello Stato costituzionale. È una questione di metodo, sempre che si voglia ancora essere una democrazia costituzionale retta, bene o male, da un sistema di pesi e contrappesi, e non una democrazia commissariata da un potere giudiziario che, per ragioni sue proprie, categoriali o politiche che siano, rischia di porsi fuori dalla Costituzione. Ho scritto, non a caso, «la riforma della Giustizia, quali che ne siano i contenuti» , perché la democrazia è, tra l’altro, un insieme di procedure circa «chi» prende certe decisioni, «come» le prende e «su che cosa» . Fuori da queste tre regole si è fuori dalla democrazia. E non mi si venga a dire che la riforma del centrodestra è illiberale e antidemocratica, cioè incostituzionale. Ammesso anche lo sia, chi lo deve stabilire? L’Associazione nazionale magistrati— un sindacato di categoria, scendendo in piazza e bloccando, con uno sciopero, l’esercizio della Giustizia nel Paese— ovvero il presidente della Repubblica, rinviandola alle Camere per vizio di incostituzionalità o, infine, la Corte costituzionale, dichiarandola decaduta perché incostituzionale? Ecco, io mi accontenterei di vivere in un Paese dove fossero rispettati certi principi scritti nella Costituzione e qualcuno rispondesse alle elementari domande che ho posto. Senza essere accusato di vilipendio della magistratura.