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 2011  marzo 14 Lunedì calendario

No-fly zone, Parigi preme Ma potrebbe essere inutile - La manovra a tenaglia delle forze di Gheddafi che rischia di stritolare Bengasi, la «capitale» degli insorti, ridà forza ai tentativi di un intervento internazionale a favore dei ribelli

No-fly zone, Parigi preme Ma potrebbe essere inutile - La manovra a tenaglia delle forze di Gheddafi che rischia di stritolare Bengasi, la «capitale» degli insorti, ridà forza ai tentativi di un intervento internazionale a favore dei ribelli. La Francia ha annunciato che oggi lancerà una nuova iniziativa al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre gli Stati Uniti, pur restando molto prudenti e comunque decisi a muoversi solo sulla base di intese multilaterali, sembrano più aperti a un intervento. Mentre a Parigi il ministro degli Esteri Alain Juppé spiega che il suo Paese sta proponendo ai partner «un’iniziativa per proteggere i civili sotto attacco in Libia» , negli Stati Uniti, dopo John Kerry, anche Bill Clinton è sceso in campo esprimendosi a favore di una «no-fly zone» . L’ex presidente si è, però, detto d’accordo con Barack Obama (e con sua moglie Hillary, il segretario di Stato), sulla necessità di concordare preventivamente l’intervento con le principali capitali mondiali. Intanto, però, il via libera dato sabato dalla Lega Araba ha ridotto le controindicazioni politiche a una «blindatura» dei cieli libici, mentre il ministro della Difesa, Robert Gates, ha corretto la rotta anche sulla fattibilità tecnica di una simile operazione. Nei giorni scorsi il capo del Pentagono aveva sottolineato con forza le enormi difficoltà di un intervento di questo tipo per un’aviazione Usa già pesantemente impegnata in vari scacchieri mondali, dall’Iraq ai mari dell’Estremo Oriente, dalla protezione delle rotte dell’Oceano indiano e del Golfo Persico all’Afghanistan. Ieri, però, Gates ha detto che le sue parole sono state probabilmente fraintese: «Se il presidente ce lo chiede, siamo in grado di eseguire il blocco dei cieli libici» . Molti analisti e anche alcuni politici cominciano però a ritenere che, con l’offensiva del vecchio dittatore libico ormai molto avanzata e ampiamente affidata a forze d i t e r r a , l a «no-fly zone» potrebbe rivelarsi un’operazione non solo molto costosa, rischiosa e impegnativa, ma anche sostanzialmente inutile. L’ideologo dei «neocon» Bill Kristol, parlando ieri dagli schermi della Fox, è tornato a chiedere un intervento militare americano contro Gheddafi anche con forze di terra. Ma su questo punto gli orientamenti prevalenti restano contrari e non solo alla Casa Bianca o tra i democratici. Anche un senatore repubblicano in passato vicinissimo a McCain come Lindsay Graham oggi sostiene la necessità di muoversi coi piedi di piombo per non ripetere gli errori commessi in passato, ad esempio in Iraq. «La "no-fly zone"ha molto senso— dice— ma un intervento con forze di terra o la fornitura di armi ai ribelli sarebbero mosse azzardate, pericolose» . Anche a costo di irritare i suoi compagni di partito, Graham ha evocato il rischio di commettere errori che poi potrebbero essere scontati dall’America per anni com’è avvenuto «con l’errata decisione di sciogliere l’esercito iracheno» , presa poco dopo l’occupazione di Bagdad. Ancora più netto Andrew Sullivan, analista e politologo britannico trapiantato da qualche decennio a Washington, secondo il quale gli Usa non devono muovere un dito perché in Libia non sono in gioco loro interessi strategici e anche perché, coi ribelli delle tribù libiche divisi da mille contrasti, la caduta di Gheddafi rischia di sfociare in una crisi ancora peggiore di quella attuale. Contrario a un intervento di terra anche il generale Wesley Clark, il capo delle forze Nato in Kosovo alla fine degli anni ’ 90 che, dopo essersi ritirato, ha fatto politica nel partito democratico. Ripercorrendo i risultati alterni degli interventi militari Usa degli ultimi trent’anni, da Grenada al Libano, dalla Somalia a Panama, il generale afferma che l’esperienza insegna che i fallimenti sono stati diversi mentre i successi, che non sono mancati, hanno comunque comportato interventi costosi e massicci. È il caso, ad esempio, di Panama: oggi è una democrazia ma per «estirpare» Noriega da questo piccolo Stato fu necessaria un’operazione militare imponente. Più possibilista Niall Ferguson, altro studioso britannico trapianto negli Usa (ad Harvard). Lo storico, che nei giorni scorsi aveva ironizzato sul fascino che le rivoluzioni suscitano sull’America, ieri ha preso di petto l’Amministrazione Obama criticando la sua idea dell’appoggio «esterno» , senza coinvolgimenti diretti: «Le rivoluzioni "organiche", come le chiama il portavoce della Casa Bianca, non esistono: i rivoluzionari americani furono aiutati dalle navi francesi, Lenin dal denaro tedesco, Mao ricevette armi dalla Russia. Senza qualche appoggio esterno è difficile che una rivoluzione abbia successo» . Ma lo storico non arriva a chiedere un intervento armato americano. Massimo Gaggi