Paola Pica, Corrire della Sera 12/2/2011, 12 febbraio 2011
INFELICITA’ IN UFFICIO
L’ amara lezione è toccata a quel manager italiano assunto a Lugano da una multinazionale svizzera. Credendo di far colpo sul gran capo smarcandosi da tutti quegli allocchi che lasciavano l’ufficio alle ore 18, il dirigente soleva trattenersi alla sua scrivania fino alle 22. Una sera dopo l’altra, impermeabile agli sguardi indagatori delle segretarie. Fino a che, al posto di promozione e bonus, il malcapitato ricevette la visita di uno psicologo. Un terapeuta messo a disposizione dall’ufficio del personale per combattere i casi di work alcoholism, la dipendenza da lavoro. Una patologia da stress professionale e quindi, al contrario di quel che si può credere, un temibile costo occulto per le imprese. Da quest’anno, anche in Italia, le aziende sono obbligate a misurare e contenere disagi e sofferenze psicologiche dei dipendenti, come stabilito da una direttiva europea del 2004. Lo squilibrio tra il tempo del lavoro e quello della vita, un tempo di lavoro male organizzato, riconosce indirettamente una circolare ministeriale, è causa di infelicità. E dunque di malattia e di assenteismo o di squilibrio ed eccessi. — è vero che per molti, troppi, avere un lavoro stabile e adeguatamente retribuito sarebbe oggi di per sé fonte di benessere. E tuttavia gli «insider» , specie se colletti bianchi e ancor più se in carriera, non sempre sono felici o almeno appagati. Sulla disponibilità a sacrificare (in toto) interessi e relazioni affettive si interroga ormai, sia pure in ordine sparso, una buona parte della popolazione aziendale. La protesta non è organizzata, il malessere viaggia al più sui social network, ma l’impennata di impopolarità di quei capi usi a convocare inutili riunioni alla 19 o nel fine settimana è difficile da ignorare. «Valutazione per obiettivi» , «Partecipazione» , «Motivazione» e persino «Tempo libero» sono le parole chiave, non si sa quanto orientate al marketing, cavalcate sulle homepage di alcune grandi compagnie internazionali nelle campagne di reclutamento. «Il rapporto tra il tasso di felicità o più semplicemente di soddisfazione di lavoratori e lavoratrici e competitività delle aziende è sempre più evidente e molto stretto» spiega l’economista spagnola Nuria Chichilla, direttore del dipartimento Work and Family dello Iese, la seconda business school del mondo secondo la classifica del Financial Times. La professoressa che dal suo blog discute di work life balance con esperti di tutto il mondo ha elaborato un indice che misura il grado di responsabilità, anzi di corresponsabilità delle aziende nella conciliazione tra lavoro e famiglia. «Azioni intelligenti di supporto nella cura dei figli, rivolte anche e soprattutto ai padri, alzano di molto la soddisfazione del dipendente e dunque la competitività aziendale e abbattono contestualmente l’assenteismo» dice l’economista citando tra gli altri il caso scuola del gruppo dell’energia Iberdrola, dove in seguito all’accordo sulla cura dei figli le assenze sono calate del 20%. Nel corso di seminario per direttori delle risorse umane, Simone Perotti, il più noto «downshifter» italiano (quello che letteralmente «scala la marcia» , lascia l’azienda e cambia vita), ha posto alla qualificata platea la seguente domanda: «Come pensate di trattenere nei prossimi anni i vostri migliori talenti? Molti di loro visitano il mio sito e mi scrivono: tra poco ti seguo, non ce la faccio più!» . Secondo l’autore di «Adesso basta. Filosofia e strategia di chi ce l’ha fatta» e del seguito «Avanti tutta» , «non saranno i soldi a trattenere i talenti. Liberare il tempo è la via sostenibile. Anche la struttura dello stipendio potrebbe tenerne conto: per chi lo desidera, meno soldi e più tempo per coltivare se stessi» . Non vengono rivisti al ribasso i livelli retributivi nelle grandi multinazionali che si stanno attrezzando a offrire lavoro a distanza in alcuni giorni della settimana, come in Siemens o Nestlé, con obiettivi importanti di abbattimento delle postazioni fisse nei prossimi anni. Nelle grandi aziende la formazione viene fatta innanzitutto ai capi: sono loro per primi che devono imparare a ragionare per obiettivi e promuovere il cambiamento. Per il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, «il lavoro è felice se dentro c’è una componente di libertà e di possibilità o di capacità di essere se stessi. Le cose che ci stancano e non ci soddisfano sono quelle che facciamo per forza— osserva il sociologo —. O che non desideriamo più» . Avere, essere e amare: viene dal Nord Europa e dai primi anni 70 il dibattito sul rapporto tra le tre dimensioni dell’esistenza e il benessere. «Sin da allora— — spiega Maurizio Ferrera, scienziato della politica— è andata affermandosi l’idea che è dalla vita affettiva, dalla qualità delle relazioni, che arriva la maggior spinta al benessere. E questo era importante soprattutto per apportare correttivi nelle società nordiche, molto individualiste. Forse in Italia— continua Ferrera, autore di "Fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia"— il lavoro è in parte ancora vissuto come una sorta di emancipazione da relazioni familiari soffocanti. E una volta conquistato il «posto» tutto il resto che sta fuori dal lavoro viene considerato come qualcosa di ancillare. Compresa la cura dei bambini o degli anziani. Una cultura iperlavoristica nella quale le donne stanno aprendo una breccia. Le donne che non voglio più essere costrette a scegliere tra il lavoro e tutto il resto» .