Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  marzo 23 Mercoledì calendario

GALLIANO HITLER, JE T’ADIOR

Quell’“amo Hitler” urlato da John Galliano ha suscitato scandalo e polemiche, ma una delle tante ironie del destino che ha contrassegnato questa vicenda va individuata nel fatto che, secondo i suoi amici, tutto questo non sarebbe potuto capitare a una persona più carina. “Non avrei mai potuto nemmeno lontanamente immaginare una cosa del genere”, ha detto un collega. “Non c’è mai stato in lui nulla di nemmeno vagamente intollerante. È una persona straordinaria, cresciuta in mezzo ai pregiudizi. Una volta mi ha detto che non aveva mai conosciuto uno come lui prima di entrare alla scuola d’arte St. Martin”. Quando è diventata di dominio pubblico la scenata di Galliano in preda ai fumi dell’alcol – come risulta dalle registrazioni si è scagliato contro alcuni avventori in un bar di Parigi gridando “amo Hitler” e aggiungendo che i loro genitori avrebbero dovuto finire nelle camere a gas – il suo datore di lavoro, la LVMH, proprietaria di Christian Dior, ha reagito come una belva inferocita, lo ha sospeso con effetto immediato e poi lo ha licenziato. I grossi nomi del mondo della moda sono come svaniti nel nulla. Solo Karl Lagerfeld, responsabile di Chanel, storico rivale di Dior, oltre che titolare di una sua casa di moda, ha detto stizzito: “Sono furibondo, se proprio volete saperlo . Mi manda su tutte le furie che possa essere accaduta una cosa del genere. Qui non si tratta più di sapere se veramente ha detto quelle cose. Ormai lo scandalo ha fatto il giro del mondo e ne è risultata un’immagine orribile per la moda perché tutti sono autorizza-ti a pensare che tutti gli stilisti e tutti coloro che lavorano nel mondo della moda sono così”.
Nessuno sostiene che lo scatto di ira di Galliano in stato di ubriachezza rifletta una simpatia nazista nel suo lavoro. Al contrario non v’è nulla di più lontano dal nazismo delle sue creazioni riccamente cosmopolite ispirate a un sentimento anarchico e influenzato dalla cultura gitana. E allora perché quella reazione da belva inferocita? Perché “loro” dovrebbero pensare “che tutti gli stilisti e tutti coloro che lavorano nel mondo della moda sono così”? Cosa ha da nascondere la moda?
È UN’ETICHETTA di cui uno stilista non ha proprio bisogno. I sociologi parlano di “estetica da archeologi” della moda moderna, di stilisti che scavano tra i “reperti archeologici della modernità” alla ricerca di ispirazioni e motivi e di rifiniture antiquate che finiscono per dare la sensazione di un passato che ritorna per “turbare e destabilizzare la fiducia del moderno”.
Gli esempi sono innumerevoli: la storica della moda Caroline Evans individua il corsetto, un reperto vittoriano recuperato dall’oblio da Vivienne Westwood e Jean-Paul Gaultier negli anni ’80 “e divenuto onnipresente nelle collezioni di tutti i principali creatori di moda europei”. Ma per quanto si voglia grattare e scavare, ci sono luoghi del passato che non bisogna rivisitare, come hanno scoperto a spese loro alcuni stilisti. Nella sua collezione uomo del 1995 a Parigi, la stilista giapponese Rei Kawabuko della “Comme des Garçons”, fece sfilare due giovani esili con la testa rasata, la gonna e il pigiama a righe con il numero. Non servì a nulla il fatto che la sfilata coincidesse con il cinquantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz: le critiche furono feroci e Kawakubo ritirò le creazioni sostenendo che l’allusione era stata assolutamente involontaria. La sua carriera subì un duro colpo e praticamente non si riprese mai completamente.
Cinque anni dopo lo stilista belga Martin Margiela pensò che sarebbe stata una bella idea far sfilare le sue modelle all’interno di un treno parcheggiato in un vecchio deposito ferroviario di Parigi: malgrado le luci da discoteca la rivista Women’s Wear Daily scrisse che Margiela si era sicuramente ispirato ai treni della morte a bordo dei quali i nazisti trasportavano le vittime nei campi di sterminio. A nulla valsero le spiegazioni di Margiela. È difficile liberarsi da un’etichetta del genere una volta che te l’hanno incollata addosso.
Immagini del genere non solo sono inquietanti, ma costituiscono per la moda un problema particolare a causa del flirt con il nazismo durante la Seconda guerra mondiale. La Germania non invase la Francia per mettere al suo servizio gli stilisti parigini, ma in ogni caso tra le conquiste dei nazisti ci fu anche quella dell’epicentro del glamour femminile dell’epoca. La moda aveva inoltre un peso economico: si diceva che l’esportazione di un solo abito d’alta moda bastasse a pagare l’importazione di una tonnellata di carbone e che l’esportazione di un litro di profumo equivalesse a due tonnellate di carburante importato. Ma di pari importanza era il prestigio. La moda era una forma di potere. “Qualunque potere ... è destinato a soccombere al cospetto della moda”, sottolineò Mussolini nel 1930. “Se la moda decide che le gonne si portano corte, non è possibile allungarne nemmeno facendo ricorso alla ghigliottina”. I nazisti volevano che Berlino prendesse il posto di Parigi come capitale dello stile e per questa ragione, con l’abituale tatto e la solita astuzia, saccheggiarono gli archivi degli atelier parigini.
IL SOGNO non si realizzò mai, ma gli stilisti intrappolati nella Francia di Vichy si trovarono in una situazione imbarazzante: mostrare disprezzo per l’invasore straniero, chiudere gli atelier e licenziare tutti i dipendenti che avrebbero poi finito per lavorare per i nazisti praticamente? Oppure collaborare e accettare con il minor danno possibile l’anatema che ne sarebbe derivato? Il genio basco Cristobal Balenciaga cuciva già gli abiti per la moglie del generale Franco e senza battere ciglio passò alle mogli dei generali nazisti. La sua fu una delle 60 case di moda che continuarono a lavorare.
Coco Chanel subì numerosi e ripetuti attacchi per essersi arricchita con i nazisti durante la guerra. Si prese come amante un ufficiale tedesco e fu arrestata – ma rilasciata poco dopo – quando gli alleati riconquistarono Parigi. Coco Chanel approfittò anche della legge sull’esproprio dei beni degli ebrei, tentando – senza successo – di riprendersi dalla ditta di proprietà di un ebreo alla quale l’aveva venduto la sua azienda produttrice di profumi. Ma la sua più recente biografa, Justine Picardie, sostiene che la vicenda è in realtà molto più complessa: Chanel era anche amica intima di Winston Churchill sin da prima della guerra, il suo amante tedesco era per metà inglese e pare che Coco Chanel si sia adoperata per favorire colloqui di pace tra Walter Schellenberg, vice-comandante della Gestapo e responsabile dei servizi segreti nazisti all’estero e il governo britannico.
L’immagine di Coco Chanel che faceva affari e mieteva successi sotto l’ala protettrice dei nazisti forse non risponde completamente al vero, ma riflette una verità più interessante. Nel suo libro 1940-45: gli anni erotici, il giornalista francese Patrick Buisson sostiene che la vittoria lampo dei nazisti fece precipitare la Francia in una sorta di “choc erotico”. I prigionieri francesi in Germania andavano a letto con le ragazze del luogo per vendicare lo stupro subito dalla loro patria e nel frattempo in Francia le loro mogli e sorelle si gettavano nelle braccia dell’invasore: nel 1942, sebbene due milioni di francesi fossero stati deportati nei campi di prigionia in Germania, ci fu in Francia un boom di nascite.
IN QUESTA atmosfera carica di emozioni di vittoria, di umiliazione e di rabbia repressa, la popolazione si rifugiò nella dissolutezza esplorando “nuovi territori del piacere” e facendo sesso nei cinematografi, nelle stazioni della metropolitana e nei rifugi antiaerei durante i bombardamenti. A questa ubriacatura partecipò anche Simone de Beauvoir. “Fu solo durante quelle notti che scoprii il vero significato della parola party”, ebbe a dire in seguito.
L’atmosfera sovraeccitata si rifletteva nella moda creata dalle case che erano rimaste in attività. C’erano creazioni per andare in bicicletta e, in stridente contrasto con gli austeri abiti disegnati Oltremanica che si avvalevano della minore quantità di stoffa possibile, a Parigi le gonne erano enormi, vuoi per sottrarre tessuti ai nazisti che li avrebbero impiegati per scopi bellici, vuoi perché questa tendenza era il riflesso di uno stato d’animo di decadente esuberanza che aiutava la gente ad affrontare quella tragedia.
Un capo d’abbigliamento fu tuttavia vittima della guerra: il berretto. Durante gli anni di Vichy, ci si aspettava che i francesi di ogni classe sociale e provenienza portassero il berretto come simbolo della loro identità francese. Ma, secondo lo storico Richard Cobb, il berretto era stato disonorato dal collaborazionismo del governo di Vichy. “In un certo senso il berretto aveva perso la sua innocenza”, ha scritto Cobb. “Era diventato politicamente contaminato... e quindi riconducibile all’assassinio organizzato”. Dopo la guerra i francesi, senza darlo a vedere, appesero il berretto al chiodo.
(c) The Independent
Traduzione
di Carlo Antonio Biscotto