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 2011  marzo 12 Sabato calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 81 - VESTIRSI ALL’ITALIANA

Il giudizio di Cavour? Difese lo Statuto a spada tratta in un articolo uscito sul «Risorgimento» del 10 marzo. « Noi abbiamo sentito con infinito rincrescimento essere stato da molte persone, segnatamente in Genova, lo Statuto male accolto ». Il conte era in realtà amareggiatissimo. Il re aveva incaricato Balbo e il genovese Lorenzo Pareto di formare il primo governo costituzionale. Ah, non aveva chiamato i ministri uno per uno. No, la prassi aveva cominciato subito a innovare lo Statuto nei punti vuoti: Balbo tenne per sé la presidenza del consiglio e scelse i ministri. La chiamata di Pareto serviva a calmare Genova. Per gli altri bisognò stare in equilibrio tra liberali e conservatori. Erano passati due giorni e si facevano mosse non strettamente previste dalla Carta. Pareto e Ricci (genovese anche lui) agli Esteri e agli Interni. Finanze a Revel, Guerra a Franzini, Grazia Giustizia e Culti a Sclopis, Lavori Pubblici a Des Ambrois, Istruzione a Bon Compagni, più tardi Gioberti ministro senza portafoglio. Cavour non c’era.

Doveva esserci? Massimo gli aveva scritto: « Credevo d’avervi a dar dell’Eccellenza, e domandarvi la vostra protezione come ministro. Qui (cioè a Roma) si teneva per certo. Ora pare di no. Del resto, credo che se non è, sarà ». Il conte se la prese parecchio. Balbo lo aveva lasciato a casa e avevano fatto insieme il «Risorgimento»! « Je ne fais pas partie du ministère Balbo. Je ne pourrais guère m’entendre avec lui » (a Emilio il 9 marzo). È possibile che ci fosse stato un veto del re. È possibile che avessero litigato proprio sullo Statuto. Balbo era per un’interpretazione strettissima del testo: la Carta è quella che è, il re e le Camere dovevano collaborare, l’ultima parola era dei Savoia, niente primato del Parlamento o, Dio ne scampi, di un presidente del Consiglio. Nell’articolo del 10 marzo, invece, Cavour aveva spiegato che la parola «irrevocabile» contenuta nel Preambolo doveva intendersi come « applicabile letteralmente ai nuovi e grandi princìpi proclamati da esso, ed al gran fatto di un patto destinato a stringere in modo indissolubile il popolo ed il Re ». Lo Statuto si poteva cambiare? Ma certo: « Come mai puossi pretendere che il legislatore abbia voluto impegnare sé e la nazione, e non mai portare il più leggiero cambiamento od operare il menomo miglioramento ad una legge politica? Ma questo sarebbe voler far sparire il potere costituente dal seno della società, sarebbe privarla dell’indispensabile potere di modificare le sue forme politiche, a seconda delle nuove esigenze sociali […]Una nazione non può spogliarsi della facoltà di mutare con mezzi legali le sue leggi politiche. Non può menomamente, in alcun modo, abdicare il potere costituente ». Poco più sotto veniva al punto: « Il Re, col concorso della nazione, potrà sempre nell’avvenire introdurre in esso tutti i cambiamenti che saranno indicati dall’esperienza e dalla ragione dei tempi. Ma se un tale potere sta nel Parlamento da noi dichiarato onnipotente, il Re solo non lo possiede più. Un ministro che gli consigliasse di farne uso senza consultare la nazione, violerebbe i princìpi costituzionali, incorrerebbe nella più grave responsabilità ». I pezzi sulla scacchiera erano collocati. Come mai a Genova si lamentavano? Lo Statuto non era piaciuto? Il paese era in festa. Arrivavano delegazioni da tutte le città e da tutti i villaggi per partecipare alla grande sfilata patriottica del 27 febbraio. Per la cena del 20, alla trattoria delle Indie, si tirarono fuori i cosiddetti vestiti all’italiana.

Che cos’erano? Un’idea milanese. Intorno al 10 gennaio era stato esposto al Caffè Nazionale un manichino vestito nella nuova foggia: « all’ampia comodità dei calzoni riconosci il Milanese schivo sempre delle galliche attillature (la moda era fino a quel momento solo francese), la schietta tonaca, il cinto militare, il breve mantello ed il cappello acuminato danno maggior sveltezza alle membra ». La vera trovata dei milanesi era il cappello, detto «alla calabrese» in memoria anche dei moti di settembre. Una gran piuma di pavone, che i torinesi avrebbero voluto d’aquila.

E le donne? C’era una foggia italiana anche per le donne, a parte le combinazioni, tentate ogni volta, di mettere insieme il bianco, il rosso e il verde. Ci fu una riunione di signore in casa di Costanza « a scopo d’intendersi, per adottare un modo di vestire, che ci tornasse all’antico nostro carattere nazionale, affrancandoci dalle mode francesi » racconta Olimpia Savio, che dice di aver poi conservato il figurino disegnato in quei giorni: sottana di raso bianco, veste di velluto nero accollata su un collaretto bianco a crespe… Olimpia, questa donna piena di intelligenza e di delicatezza, dice poi che preferirono lasciar perdere: comunque « quelle erano fogge da palafreni, da lettighe, da carrozzoni dorati, in urto quindi con le carrozzelle da nolo, le navi a vapore, e le ferrate, di fronte a cui, malgrado la differenza di ceto, si è tutti sulle stesse ruote, in balia della stessa macchina, e tutti pari nell’aspettare e nel non essere aspettati ».