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 2011  marzo 12 Sabato calendario

DA SOLFERINO A GAETA ANCHE I MORTI ERANO FINTI

Lo stivale di Garibaldi ferito sull’Aspromonte il 29 agosto 1862 fu raccolto dal volontario Rocco Ricci Gramitto di Girgenti e da lui stesso conservato «come una sacra reliquia». Almeno così recita la didascalia di una foto scattata dai torinesi fratelli Bernieri. Sarà il «vero» stivale? A essere certamente falsa è un’altra fotografia, pure quella legata alla ferita e all’Aspromonte. In questo caso il piede offeso è in bella evidenza e sulla camicia di Garibaldi è appuntata una sfilza di medaglie, compresa quella concessa ai «reduci dell’impresa dei Mille» che il generale non indossò mai. E infatti si tratta solo di un sosia, nemmeno tanto somigliante. Falsa questa foto. False molte delle foto di briganti (si chiese ai contadini del Sud di mettersi in posa «come se fossero» briganti). E falsa anche l’immagine della regina Sofia di Borbone, l’eroina della resistenza contro i piemontesi a Gaeta, ritratta nuda.
Una valanga di falsi, dunque inonda il bel libro di Marco Pizzo Lo stivale di Garibaldi. Il Risorgimento in fotografia. Perché? Perché il nostro Risorgimento coincise con gli albori della fotografia e questa, per intenderci, non poteva minimamente competere con la pittura. Per il suo ingombro (una macchina fotografica pesava più di trenta chili) e per le rudimentali tecnologie, alla fotografia era preclusa l’immediatezza della battaglia, la vivacità della vita in diretta.

E’ così, ad esempio, per le foto di Stefano Lecchi scattate nel luglio 1849 dopo la caduta della Repubblica Romana che - forse a dispetto di quanto si riprometteva l’autore che con quelle immagini di rovine belliche intendeva ringraziare i francesi per il loro aiuto al Papa - diventarono per tutti la testimonianza dell’eroica difesa di Roma da parte dei patrioti repubblicani. Ed è così per quelle foto di Gustave Le Gray, Victor Laisnè e Eugène Sevaistre che mostrano le barricate di Palermo insorta all’arrivo dei Mille. Senza la possibilità dell’«istantanea», si trattava di una fotografia «monumentale» che finiva con attribuire alle guerre del Risorgimento gli stessi tratti estetici con cui i «vedutisti» raccontavano allora il paesaggio italiano.

Non ci sono morti nelle fotografie delle guerre risorgimentali: i cadaveri di Gaeta sono finti, messi in posa da Eugène Sevaistre che riprese i resti della cittadella subito dopo la resa borbonica (13 febbraio 1861). Ci sono invece i morti, tantissimi, del «brigantaggio». In quei cadaveri di briganti messi in scena davanti al fotografo, il nemico ucciso non è quello delle guerre simmetriche, del rispetto delle regole, della reciprocità dei comportamenti. E’ un trofeo di caccia da esibire.

Niente a che vedere, insomma, con i grandi cicli pittorici del Risorgimento, con il pathos racchiuso nelle le immagini simboliche dell’Italia piangente o in fase di riscatto (Francesco Hayez), nel Balilla (Emilio Busi e Luigi Asioli), ne Il carabiniere reale Giambattista Scapaccino (Francesco Gonin). Tutto il nostro Risorgimento, dalle cospirazioni degli Anni 30 alle guerre di indipendenza, potè avvalersi dei quadri di Gerolamo Induno, ma anche di Antonio Puccinelli, di Francesco Netti, di Giulio Gorra e altri. Mentre Eleuterio Pagliano, Domenico Induno, lo stesso Gerolamo Induno, Filippo Palizzi, Angelo Migliaccio, Domenico Russo, Vincenzo Cabianca furono poi eccellenti interpreti dell’epopea garibaldina.

Sono quadri vibranti, che racchiudono nei loro colori la passione di autori che erano pittori ma che erano anzitutto patrioti che credevano nel loro lavoro come credevano nell’Unità d’Italia. Lontani quindi dalla freddezza professionale di quei primi fotografi di mestiere.

La loro era una fotografia affollata per forza di cose di pose e di ritratti: Eppure... eppure proprio attraverso i ritratti anche la fotografia contribuì ad avvicinare il pubblico ai protagonisti del nostro Risorgimento, rendendo «popolari» Garibaldi e Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele ma anche i «Mille» (nel 1861, nell’ dei Mille furono raccolti le immagini di quasi tutti i garibaldini che parteciparono alla spedizione). E fu sempre attraverso la fotografia che si dispiegò compiutamente il tentativo di casa Savoia di dare una netta impronta dinastica al progetto di «fare gli italiani», promuovendo una diffusione capillare delle immagini della «Famiglia Reale» (significative, ad esempio, quelle del torinese Luigi Montabone).

Le classi dirigenti dell’Italia liberale usarono la fotografia per conoscere, controllare, guidare «dall’alto» la nuova Italia, attraverso un progetto centralistico e pedagogico in un disegno in cui i cataloghi dei mestieri, degli usi e dei costumi, dei monumenti e delle piazze, si intrecciano all’ossessione delle foto segnaletiche utilizzate dalle forze dell’ordine per separare normalità e devianza. Oggi si può valutare tutta l’importanza di quei «tipi umani», delle vedute, dei paesaggi: furono immagini che aiutarono a «immaginare» l’Italia in quei decenni quando era ancora impossibile «conoscerla». Fu un’esperienza solo visiva, ma propedeutica a tutti i successivi progetti di «fare gli italiani».