FRANCESCA PACI, La Stampa 12/3/2011, 12 marzo 2011
Il nipote dell’ultimo re “Voglio la democrazia” - A vedere oggi in televisione la bandiera monarchica che sventola dai balconi di Bengasi Sua Altezza Idris al Senussi ha l’impressione che non sia passato un giorno
Il nipote dell’ultimo re “Voglio la democrazia” - A vedere oggi in televisione la bandiera monarchica che sventola dai balconi di Bengasi Sua Altezza Idris al Senussi ha l’impressione che non sia passato un giorno. Invece, sospira il nipote dell’ultimo re di Libia giocherellando con il cellulare sul cui display lampeggia il tricolore di famiglia, sono trascorsi 42 anni: «Era l’estate 1969, partii come al solito con i miei fratelli e le sorelle per le vacanze. Non ci aspettavamo nulla: a parte qualche corteo studentesco il Paese era tranquillo, la monarchia era costituzionale e liberale, non c’erano prigionieri politici. Pensavo di ricominciare a settembre la scuola cattolica italiana De La Salle di Bengasi e invece, a Londra, l’ambasciatore c’informò del golpe. Non tornai più a casa». Aveva 14 anni. Mentre il Colonnello Gheddafi s’insediava trionfalmente a Tripoli, suo padre, Abdallah al Abid al Senussi detto «il principe nero», riceveva dal sovrano deposto e senza eredi maschi l’incarico di «restaurare la legittimità». Un’illusione bruciata presto dalla Jamahiria. L’islamico progressista Il principe Idris siede nell’ufficio in via di Fontanella Borghese, a Roma. Giacca di lana, camicia con le iniziali Ias, anello d’argento al mignolo della sinistra con cui gesticola ampiamente: non lo diresti il successore dello zio di cui porta il nome. Non lo dice nemmeno lui. «Non sono l’erede ma uno degli eredi, ci sono tre o quattro pretendenti. Nella monarchia araba il re passa lo scettro a chi vuole e viene confermato dal popolo, dalle tribù. Ma è roba passata: oggi i libici chiedono uno Stato moderno tra i cui membri ci sia magari qualcuno della famiglia reale». Si mormora che quel qualcuno sia proprio lui. Laureato in economia negli States dopo gli studi al St George di Roma, sposato con una spagnola, due figli, poliglotta (parla sette lingue), leader del movimento senussita, il ramo progressista dell’Islam che fa capo alla sua famiglia, il principe Idris potrebbe conciliare l’aspirazione libica alla democrazia e le preoccupazioni occidentali. Sorride schivo: «Sono al servizio della mia gente, è una responsabilità dinastica». Lavora con l’opposizione dal 1985 ed è in contatto con i ribelli del fronte cirenaico che chiama «costituzionalisti». L’egoismo del dittatore La rivoluzione libica? Piuttosto un’evoluzione: «Quando il re gli passò il potere mio padre si travava a Montecatini, si attivò subito per rientrare. Voleva atterrare a Tobruk appoggiandosi alla base britannica ma Londra negò il permesso. Provò anche dal Ciad. Tutto vano: morì in esilio nel 1988 pregandomi di non dimenticare il nostro popolo. Me l’hanno ricordato i vessilli monarchici nella Bengasi liberata. L’ex dittatore ha sbagliato tutto: se invece d’investire centinaia di miliardi all’estero per la sua famiglia avesse sviluppato la Libia gli sarebbe forse stato perdonato il golpe. È stato un tiranno: ha distrutto la nostra residenza di Bengasi solo per cancellare la memoria della Cirenaica che invece è rimasta viva». Il Consiglio Nazionale di Bengasi, di cui fa parte il cugino Zubiar Ahmed Al Sharif liberato nel 2003 dopo trent’anni di prigione, rilegge adesso la Costituzione d’era senussi, «l’antidoto», secondo Foreign Policy, all’islamismo qaedista. La Costituzione del 7 ottobre 1951 è l’unico cimelio rimasto al principe. Ne tiene una copia sulla scrivania. La ripassa spesso comeripassa la lezione di Camus, Solzenicyn, la filosofia indiana del Bagavata da cui ha imparato la resistenza pacifica e le parole di Obama nell’«L’audacia della speranza»: Un esilio quasi finito «Ero partito per tornare, mi restarono solo i ricordi. Il sapore del bazin, la pasta di Tripoli, una nuotata nel mare davanti alle rovine di Sabratha, il palazzo di Bengasi con il parco in cui ho imparato a guidare e 120 persone di servizio a occuparsi di mio padre, le sue due mogli, nove figli. Mi restò il passato». Il futuro è l’aereo con cui, giura, tornerà presto in Cirenaica: «Dovete capire che le tribù non dividono la Libia, la compongono. Il popolo è unito nel chiedere la democrazia libica, che si differenzia da quella occidentale solo perché non sceglie il presidente da un partito ma fa riferimento a una famiglia, la Senussia, l’unica che discende dal Profeta e può impedire a una tribù di prevalere sulle altre o al Paese di sprofondare in un caos somalo. Nella Senussia poi ci sono persone liberal come me e conservatori, ma il re non c’entra: il meccanismo è democratico». L’Italia non scende in piazza Ripete che Usa ed Europa non devono aver paura: «I soli fondamentalisti presenti oggi in Libia sono i mercenari portati da Gheddafi. Il Paese non rischia derive estremiste perché ha un movimento islamico moderato, la Senussia, che ha sempre rispettato le minoranze. Il re mi diceva che musulmani, cristiani ed ebrei erano tutti suoi figli e io vorrei tornare a Bengasi con gli ebrei libici cacciati insieme a me». Si fida di Obama: «La Libia vuole la democrazia anche se non identica a quella americana, non c’è bisogno d’imporla: non ripetete l’errore commesso in Iraq. E non c’è bisogno neppure di un intervento militare esterno perché, seppur ancora bene armato, l’ex dittatore è debole. Servono piuttosto aiuti umanitari e sostegno politico: come mai la mia amata Italia che ha manifestato per l’Iraq, l’Egitto, la Tunisia, non lo fa per la Libia?». Fatica a capire che qualcuno dovrebbe prima spiegare agli italiani se la rivolta libica sia di destra o di sinistra.