Antonio D’Orrico, Sette n.10 10/1/2011, 10 gennaio 2011
COM’È TRISTE TRIESTE
Giampiero Mughini quante volte è stato nella sua vita a Trieste?
«Tre volte per un complesso di cinque, sei giorni al massimo».
E perché ha scritto “In una città atta agli eroi e ai suicidi”, un libro su Trieste, su Italo Svevo, sui fratelli Stuparich, Scipio Slataper, Umberto Saba, Carlo Michelstaedter?
«Per l’orgoglio intellettuale di raccontare una Trieste che non conosco. La mia Trieste è tutta dell’immaginazione, della fantasia e della memoria letteraria. Le uniche cose che mi interessano oggi. Non ho più per la realtà reale il benché minimo interesse, una forma di difesa anche dall’allarmante realtà dell’Italia contemporanea. Ma l’ho scritto pure per celebrare - in un mondo che fa sfrontatamente l’apologia del successo quantitativo, dei bestseller -, il più grande e straziante insuccesso letterario di tutti i tempi».
Quale sarebbe?
«L’insuccesso di Italo Svevo. E penso a Senilità, il capolavoro pubblicato nel 1898 e che restò invenduto. Ma parlo anche della Coscienza di Zeno».
Un insuccesso? Ma se è uno dei più famosi romanzi italiani di sempre, amatissimo da mostri sacri come James Joyce e Eugenio Montale?
«Sa a quanto corrisponde quantitativamente il gran successo della prima edizione della Coscienza? A millecinquecento copie vendute. Un “successo” che spinge Svevo a proporre agli editori il rilancio di Senilità. Gli rispondono picche. Svevo, che va per i 66 anni, si dispera e, convinto che l’handicap del romanzo sia l’italiano (in realtà perfetto) in cui è stato scritto, convoca un professore di lettere e il genero, un ragazzo di grande finezza, per fare delle correzioni. Una sera ero a cena a Milano dai miei due librai prediletti, Lucia e Giovanni della libreria Pontremoli, che mi mostrarono questa copia struggente di Senilità su cui Svevo aveva fatto le correzioni. Quel cimelio mi ha eccitato a scrivere un racconto dove Trieste e i suoi eroi e i suoi suicidi scintillassero ora qua, ora là».
Lasciamo in sospeso il Caso Svevo e facciamo l’appello dei suicidi che scintillano nel suo racconto. Primo nome: Nadia Baraden.
«Nadia Baraden, vent’anni, esule russa, iscritta alla Scuola del nudo di Firenze dove posava a volte come modella, un giorno, nella piazza principale della città, tira fuori una rivoltella dalla borsetta e si spara in bocca».
Le sorelle Margherita e Malvina.
«Sono le commesse della libreria antiquaria di Umberto Saba a Trieste. Si suicidano nel 1922, poco più che ventenni. Saba, magari, metteva loro le manacce addosso ma questo non costituisce il vero problema. Il problema è il male di vivere triestino. Un morbo».
Carlo Michelstaedter.
«Goriziano, innamorato di Nadia Baraden. Aveva un fratello maggiore che si uccide nella sua casa di Madison Avenue a New York. Anche lui si uccide, dopo un litigio da nulla con la madre, il 17 ottobre 1910. Aveva 23 anni. Trentatré anni dopo la madre, a 89 anni, viene messa assieme alla figlia su un vagone piombato diretto ad Auschwitz».
Carlo Stuparich.
«A ventun anni, il 30 maggio 1916, il sottotenente Stuparich si uccide perché il suo plotone sta per soccombere all’esercito austriaco. Sa che gli austriaci lo impiccheranno come disertore, destino che toccava ai triestini che avevano scelto di combattere dalla parte italiana».
Giani Stuparich.
«Il fratello sopravvissuto. Nel libro racconto la scena in cui la madre gli appunta la medaglia d’oro al valor militare nel cortile della caserma dove era stato impiccato Guglielmo Oberdan... Ho scritto tutto questo per averne memoria e rispetto, per portare il lutto di questa storia terribile e meravigliosa. Perché nessuno, nell’Italia odierna, il Paese di Ruby Rubacuori, sa più di Slataper, degli Stuparich, di Guglielmo Oberdan, della prima guerra. E, soprattutto, nessuno sa più di Trieste. Perché Trieste dal 1945 è scomparsa dalla storia d’Italia. E lì c’è la più grande vergogna dell’italcomunismo. L’italcomunismo è una cosa assai importante ma ha le sue vergogne. Come l’aver detto sì a Tito che si stava pappando Trieste».
Nel libro c’è un cameo dedicato a Bruno Veneziani. Chi era?
«Era il fratello di Livia, la moglie di Svevo. Soffriva di turbamenti molto profondi a causa della sua omosessualità. La famiglia allora lo mandò da Freud a Vienna. Freud lo rimandò indietro con un biglietto in cui scrisse: non posso far niente. Pare che Freud si sentisse preso in giro da questo cognato di Svevo».
Rieccoci a Svevo, il protagonista principale del libro. Era veramente “un piccolo delinquente nevrotico” come una volta disse di se stesso?
«Il vero nome di Svevo era Ettore Schmitz e, in qualità di Ettore Schmitz, impiegato, andava in giro per l’Europa a vendere le vernici sottomarine prodotte dal suocero. Ma Ettore non era veramente lui, lui era un uomo distrutto dal fatto di essere autore di due libri che nessuno aveva letto. Distrutto dal fatto che la famiglia lo considerava (come ricordò una volta la figlia) uno scrittore della domenica».
La moglie sapeva che Svevo era Svevo?
«La moglie non sa di aver sposato Svevo, la moglie sa di aver sposato Ettore Schmitz, l’impiegato. Vuoi che Senilità, un capolavoro che un intellettuale come Silvio Benco ci mise venti anni a capire, sia stato capito dalla signora Livia? Lei non sapeva di aver sposato Italo Svevo. Lei aveva sposato Ettore Schmitz, un uomo intelligente, sensibile, che suona il violino, che le vuole molto bene e rompe i coglioni moltissimo con la sua gelosia. A discolpa di Livia, dobbiamo dire che quasi nessuno sa che Ettore Schmitz è Svevo, lo sanno solo James Joyce, Bobi Bazlen, Eugenio Montale e gli intellettuali francesi come Valery Larbaud che lo chiameranno maestro».
Quando è in viaggio, Svevo scrive lettere alla moglie piene di domande ossessive. Perché hai portato in vacanza vestiti così belli? A cosa ti servono i gioielli che tieni in borsa? Chi hai visto ieri mattina?
«La sua gelosia era forsennata. Svevo, sotto questo aspetto, era fragilissimo. Le sue energie lui le aveva spese nell’assumere il ruolo di impiegato della ditta Veneziani anziché quello dello scrittore».
C’è questa scena bellissima di Joyce, insegnante di inglese di Svevo e della moglie, che nella stupenda cornice (come direbbe un presentatore tv) di Villa Veneziani legge ai coniugi “The Dead”, il racconto più bello dei “Dubliners”.
«E Livia, alla fine della lettura, si commuove e scende in giardino a raccogliere dei fiori che offre a Joyce. Allora Svevo si fa coraggio e gli dice: “Sa, anch’io scrivo”. E Joyce gli dice: “Mi faccia vedere qualcosa”. Lo fa per gentilezza, figuriamoci se può immaginare di avere davanti un altro grande scrittore».
Sulla famiglia Svevo pesa una maledizione.
«Il sangue degli Svevo si estingue nel 1945. Per tre generazioni la malasorte si accanisce sulla famiglia. Prima c’è il fallimento commerciale del padre dello scrittore. Poi la morte precoce del fratello Elio. Quindi l’insuccesso letterario suo. Nel 1928 la sua morte in un incidente stradale. Due nipoti di Svevo vanno a morire in Russia a vent’anni, il terzo e ultimo muore combattendo a Trieste contro i nazi. Sembra il film sul soldato Ryan di Spielberg, ma nel film morivano tre su quattro fratelli, qui è peggio: ne muoiono tre su tre. Infine i bombardamenti americani che distruggono completamente Villa Veneziani, la casa avita, con tutti i suoi tesori. Una dannazione triestina portata alla sua esasperazione. Una storia più storia di così è impossibile».
Sembra un mito greco.
«Vorrei che il libro potesse ridare a Trieste, nell’immaginario collettivo nazionale, almeno un po’ di quello spazio che è stato dato in abbondanza alla Rimini dei bagnini. Credo proprio che se lo meriti». _
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