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 2011  marzo 07 Lunedì calendario

SE LA FINANZA RESTA TROPPO IN CASA

Quale finanza Mario Draghi si troverà a governare nel Vecchio continente se, come molti prevedono, diventerà presidente della Bce, la Banca centrale europea? Una prima risposta viene anticipata da Fulvio Coltorti, capo dell’Area studi di Mediobanca, introducendo un recente incontro a porte chiuse tra il ministro Tremonti e una sessantina di banchieri, ospite Aspen Italia. Come usa in Piazzetta Cuccia, parlano i numeri. Che riassumeremo e chioseremo in otto quadri. Finanza ed economia Nel 1990 le attività finanziarie valevano 6,2 volte il Prodotto interno lordo negli Usa e 4,3 volte in Italia. Nel 2009, l’economia di carta americana vale 10,3 volte quella reale, con una leggera flessione dopo il 2007; in Italia il rapporto sale fino a 8,7 volte. Ma a impressionare è l’Eurozona dove il rapporto balza a 11,8 volte. Contrariamente alle credenze diffuse, la finanza cresce in Italia e soprattutto nell’Eurozona più rapidamente che negli Stati Uniti. Lo stato patrimoniale La ricchezza delle famiglie, al netto dei debiti, è il punto di forza dell’Italia. Da tempo, il governo lo va sostenendo a garanzia, ancorché non esigibile, del debito pubblico. Ma a impressionare sono i dati assoluti e pro capite sulla ricchezza comprensiva degli immobili, che costituiscono una delle carte di lavoro sottostanti il rapporto tra attività finanziarie e Pil presentato da Coltorti. Ecco che cosa si ricava da questa carta dell’Area studi di Mediobanca. Compresi gli immobili al netto dei mutui, l’Italia (60,3 milioni di abitanti) ha una ricchezza privata totale di 8.618 miliardi di euro; la Germania (81,8 milioni di abitanti) di 8.780 miliardi; il Regno Unito (62 milioni) di 7.244 miliardi di sterline, ovvero 8.148 miliardi di euro; gli Usa (307,2 milioni) di 53.641 miliardi di dollari, che fanno 38.845 miliardi di euro. Vecchi e bambini inclusi, gli italiani hanno dunque una ricchezza netta pro capite di 143 mila euro, gli inglesi di 134 mila, gli americani di 126 mila e i tedeschi di 106 mila. Le medie offrono una rappresentazione astratta della realtà. E la ricchezza delle nazioni è data anche dai beni pubblici e dalla consistenza patrimoniale delle imprese finanziarie e non. E tuttavia la sorprendente ricchezza delle famiglie conta e ci si interroga su come sia possibile accumulare una tale ricchezza privata con un Pil che cresce così poco e consumi in linea con il resto del mondo sviluppato. Che il «nero» sia più di quanto stimi l’Istat? I sistemi d’impresa Le passività finanziarie delle imprese italiane, al netto delle attività, sono pari al 113%del Pil, quelle delle imprese tedesche al 59%, l’Eurozona sta al 100%, gli Usa al 143 e il Regno Unito al 126%. Sul piano del debito, le imprese italiane stanno chiaramente peggio delle tedesche e un po’peggio dell’Eurozona, influenzata dal dato tedesco, ma un po’ meglio delle inglesi e delle americane. L’evoluzione della specie Nel 1970, nella tipica grande banca tedesca, ben oltre la metà degli attivi era data dai crediti alla clientela, pochissimi derivati, poche azioni e obbligazioni, abbastanza cassa e credito ad altre banche. Questo attivo era finanziato quasi tutto dai depositi e dalle altre banche. Nel 2009, metà dell’attivo e del passivo è fatta di derivati, mezzi propri irrisori come sempre, cassa azzerata, azioni e obbligazioni in quantità, soprattutto all’attivo. Stessa musica, magari un po’meno finanziarizzata, nella tipica grande banca inglese. Per galateo, Mediobanca non fa i nomi dei soggetti analizzati. Ma è evoluzione della specie o tradimento dei banchieri? Troppo grandi per fallire Nel decennio 1999-2008 si esaspera la concentrazione del rischio. In Europa gli attivi totali delle grandi banche aumentano del 122%, negli Usa del 95%, ma la dimensione media delle banche europee si accresce del 205%e quella delle americane addirittura del 411%. Gigantismo folle? Certo colpisce il paragone con le multinazionali industriali che, nello stesso periodo, aumentano gli attivi del 39%in Europa e del 44%negli Usa mentre la loro dimensione aziendale sale del 61 al di qua dell’Atlantico e del 78%al di là. Su entrambe le sponde, altra carta di lavoro, i maggiori gruppi bancari sono grandi 10 volte i maggiori gruppi industriali. Nel 2009, l’attivo totale tangibile di Bnp Paribas è pari a 2042 miliardi di euro, quello della Royal Dutch a 199; Royal Bank of Scotland (poi fallita e salvata dal governo) ne ha per 1890 miliardi contro i 181 di Porsche-Volkswagen. Negli Usa, Bank of America vanta attività totali tangibili per 1461 miliardi di dollari contro i 157 di Exxon Mobile; JP Morgan ne per 1363 miliardi contro 121 di General Electric. Dov’erano le banche centrali? Dove i governi? Dove gli economisti liberisti? Gli effetti della leva Dividendo in due famiglie le maggiori banche europee in base al rapporto tra attività totali e patrimonio netto (la cosiddetta leva finanziaria), emerge come la metà più tradizionale abbia una leva media di 22,9 e quella più modernista di 43,9. Nelle banche tradizionali, i crediti verso i clienti rappresentano il 52,6%dell’attivo, nelle altre il 35,6%. L’Italia tradizionalista ha posizioni illiquide solo per il 15,6%degli attivi, l’Europa modernista per il 52,3%e gli Usa ultra-modernisti per il 69,2%. In contropartita, i crediti dubbi netti verso la clientela sono solo il 5,3%degli attivi negli Usa, il 29,7%in Europa e il 30%in Italia dove, avverte Coltorti, il dato è al netto delle garanzie; altrimenti, aggiungiamo noi, in questo confronto staremmo peggio. Investitori istituzionali Tra il 1990 e il 2009, gli attivi finanziari detenuti da fondi comuni, assicurazioni, fondi pensione e gestioni patrimoniali aumentano dal 16,8%del Pil al 59,3%, con una punta del 78%nel 2005. Il peso specifico dei fondi comuni e pensionistici cala, risalgono le gestioni, mentre le assicurazioni, preponderanti all’inizio, si vanno riprendendo dal crollo degli anni ’ 90. A conferma di quanto poco i servano alle imprese, i fondi comuni incidono scendono dal 12,4%della Borsa all’1,7%, le gestioni recuperano dal 5,7%all’8,1%, forse perché le banche le preferiscono per nascondere la polvere sotto il loro tappeto. La Borsa dei soci Come si vede dal grafico, dal 1996 al 2010 gli azionisti delle società di piazza Affari hanno ricevuto dividendi, ceduto azioni a terzi (opa) o alla propria società (buy back) in misura largamente maggiore agli aumenti di capitale e alle offerte pubbliche che Coltorti, per carità di patria e amore di sintesi, non distingue tra offerte pubbliche di scambio e offerte pubbliche di vendita, le quali ultime rientrerebbero nella funzione distributiva del mercato. Sarà un caso ma solo lo 0,5%delle 4600 medie imprese italiane e solo il 14%delle 600 medio-grandi sono quotate. A che cosa serve dunque, al di là delle parole, la finanza se è così autoreferenziale? E perché questa finanza dovrebbe dettar legge all’economia?