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 2011  marzo 07 Lunedì calendario

NON TUTTI I TIRANNI SONO CATTIVI

L ’analisi si fonda sulle distinzioni, ma in questi giorni di ribellioni nel mondo arabo le distinzioni tendono a sfumarsi. Non tutti i tiranni sono cattivi, come proclamano alcuni neoconservatori, e non tutti meritano di essere rovesciati. Le differenze morali tra un dittatore e l’altro sono talvolta altrettanto vaste quanto quelle che corrono tra totalitarismi e democrazie. Esiste anche il despota benevolo e non è giusto voltare le spalle a figure di questo tipo che ancora oggi rimangono al comando di alcune nazioni. Una visione di finalità condivise, la legittimità riconosciuta, l’esistenza di un contratto sociale e la capacità di rendere la società più complessa sotto il profilo istituzionale — e quindi pronta ad accogliere maggiori libertà — sono le caratteristiche distintive dei buoni dittatori. Muammar Gheddafi, per esempio, non è nemmeno lontanamente paragonabile al sultano Qaboos bin Sa’id dell’Oman, il cui regno ha assistito a violente manifestazioni giovanili in questi ultimi giorni. E l’ormai deposto dittatore egiziano Hosni Mubarak, di stampo brezneviano, non può essere confrontato all’energico re Abdullah di Giordania. Il sultano Qaboos dell’Oman ha fatto costruire strade e scuole in tutta la regione rurale, promosso l’emancipazione delle donne e protetto l’ambiente. Ha governato finora secondo principi e finalità simili a quelli di tanti dittatori asiatici degli anni passati, come Deng Xiaoping in Cina, Lee Kuan Yew a Singapore e il più controverso Mahathir Mohamad in Malesia. Tutti costoro hanno saputo risollevare i loro Paesi dalla povertà favorendo la nascita di una classe media industriosa e ambiziosa. Come per i sovrani di Giordania, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, anche la legittimità del sultano Qaboos si fonda su un’antica tradizione, ma lo stesso non può dirsi dei despoti del Nord Africa, che hanno instaurato Stati polizieschi senza il minimo conforto della tradizione, tutti ugualmente privi di lungimiranza e senso del futuro della nazione. La legittimità si fonda su un contratto sociale che considera gli individui cittadini e non soggetti, e si pone il fine del progresso economico e dell’avanzamento sociale. I leader cinesi sanno che occorre stimolare una crescita economica di almeno 7 punti percentuali l’anno per evitare disordini popolari. Tuttavia, malgrado i successi, il contratto sociale si evolve di pari passo con l’evolversi della società: i cittadini, specie i giovani, accanto alla libertà economica reclamano anche la libertà politica. Per questo motivo la gioventù inquieta di Cina e Oman si distingue da quella del Nord Africa. Nel primo caso i giovani sono cresciuti nell’attesa di nuove aperture da parte dei loro governanti e quando le loro aspettative sono deluse, scatta la ribellione. In Tunisia e in Egitto, invece, si sono ribellati perché, costretti ad accettare sempre di meno, hanno saputo cogliere un momento di debolezza nel palazzo del potere per scatenare la loro furia. La Libia, poi, incarna un livello di megalomania e di disintegrazione sociale che non ha paralleli in tempi recenti e sembra anzi riaffiorare dall’antichità. Il colonnello Gheddafi non s’è curato di mettere in piedi valide istituzioni, come fanno i despoti benevoli. Negli Stati del Golfo, i meccanismi statali funzionano. Funzionano anche in Tunisia e in Egitto, anche se non con la stessa efficienza. In Libia non esistono nemmeno. Come aveva notato già negli anni Sessanta il compianto professore di Harvard, Samuel Huntington, più è complessa una società, più numerose sono le istituzioni necessarie per governarla. Compito del dittatore è quello di rendere la società più complessa sul piano gerarchico, in modo da favorire la crescita delle varie classi economiche e consentire ai cittadini di affrontare la mobilità sociale. È un compito favorito dallo sviluppo e dalla promozione delle libertà individuali. Ma il successo stesso del despota benevolo — la sua rinuncia alla tirannia — prima o poi spiana la strada alla propria caduta. La libertà politica deve sempre accompagnare un certo livello di complessità sociale. Il dittatore può evitare la tragedia al termine di un felice regno solo se saprà traghettare il popolo verso un nuovo governo evitando che la situazione precipiti nel caos. Nel corso della sua vita, ben di rado gli verrà riconosciuto questo merito. Solo oggi si comincia ad ammettere in Indonesia che il defunto Suharto, rimasto al potere per lunghissimi anni, contribuì a preparare il Paese a un decennio di reale ed efficace democrazia. Fu un tiranno corrotto, è vero, ma il suo governo produsse molti benefici per il popolo. Il sultano Qaboos capirà senz’altro che, nel favorire lo sviluppo sociale dell’Oman, il merito principale del suo governo sarà quello di consentire una certa misura di vera democrazia. Se riuscirà a placare l’opposizione con questa promessa, potrebbe diventare il Lee del mondo arabo, che ha saputo portare Singapore da livelli africani di sottosviluppo a uno tra i Paesi più ricchi al mondo. In un momento di rivoluzioni democratiche, questa potrà sembrare una proposta antiquata. Tuttavia, con il progressivo attenuarsi dell’infatuazione attuale, sarà chiaro a tutti che per sconfiggere la tirannia ci vuole molto di più che una chiamata alle urne.