Antonio Carlucci, l’spresso 17/3/2011, 17 marzo 2011
ECCO LA DETROIT CHE MARCHIONNE NON VEDRA’
Ho una domanda per voi: che cosa ne sa questa città del lusso? Parte con queste parole, e con una musica di fondo su una sola nota e tutta in ascesa, lo spot che la Chrysler ha confezionato e mandato in onda domenica 6 febbraio, in occasione del Superbowl, per lanciare la nuova 200. Mentre scorrono le immagini di un grande albergo, di belle case moderne e antiche e della Highway 75, che a Detroit tutti chiamano autostrada Chrysler, lo spot prosegue: "Che cosa ne sa una città che è andata all’inferno ed è tornata indietro delle cose più belle della vita?". Domanda che introduce il rapper Eminem: scende da un’auto nera, entra in teatro e con il dito puntato esclama: "Questa è Motor City e questo è quello che noi facciamo".
Dave Bing, 67 anni, sindaco afro-americano di Detroit, deve essere rimasto perplesso quando ha visto lo spot pubblicitario che identifica la sua città con un oggetto di lusso da desiderare. Perché la metropoli che governa dal 2009 è davvero andata all’inferno. Ma non è ancora riuscita a tornare indietro. Le porte del regno del diavolo si sono aperte per Detroit alla fine degli anni Sessanta, e da allora la discesa è continuata, un girone dei dannati dietro l’altro, sempre più in fondo. Bastano due dati per capire quale realtà si trova a governare il sindaco dopo una lunga e onorata carriera prima nel basket professionista con i Detroit Pistons e poi nel mondo degli affari alla guida di un conglomerato di aziende diverse. La popolazione è passata da due milioni a poco più di 900 mila abitanti. Una fuga senza precedenti in America. Un terzo della città, per una estensione equivalente alla superficie di Boston, è ormai deserta. Ex fabbriche, uffici, case piccole e grandi abbandonate. Montagne di rifiuti, animali, vegetazione che ha ripreso il sopravvento sugli insediamenti umani, tanto che l’espressione usata è quella di feral neighbourhood, quartieri selvaggi.
Certo, ci può essere anche una lettura meno negativa e più ispirata alla speranza nei due minuti di pubblicità che hanno per protagonista Eminem, il rapper bianco nato nella sconfinata area metropolitana di Detroit, e la Chrysler 200. Quale? Se la fabbrica targata Marchionne sembra avviata sulla via della rinascita, allora anche la città che ha dato i natali all’industria automobilistica made in Usa e che ha creato il primo nucleo di middle class afro-americana ha davvero la possibilità di uscire dall’inferno in cui vive. È una visione ottimista che però nasce dal rifiuto di guardare il cuore dell’inferno di Detroit e dalla difficoltà di trovare una soluzione.
Non bastano i grattacieli cristallo e cemento di downtown o l’enfatica e ultra positiva presentazione della città che appare nella rivista che la compagnia aerea Delta ha fatto trovare a febbraio a ogni passeggero dei suoi voli. Basta parlare con il sindaco Bing e con la pattuglia di funzionari, consulenti, architetti, ingegneri che si occupano della città per capire che l’impresa di rimettere in piedi Detroit dal punto di vista urbanistico e abitativo è una "mission impossible". Un numero fotografa la situazione: ci sono decine di migliaia di edifici abbandonati, grandi e piccoli, destinati a uffici e fabbriche come a condomini residenziali. E per oltre 10 mila non si può pensare a un recupero o ristrutturazione di alcun tipo. Vanno demoliti e basta.
Il monumento della decadenza metropolitana è un edificio beaux arts che svetta solitario accanto a Roosevelt Park, nel cuore della ex area industriale: la Michigan Central Station, circondata dai terreni che Henry Ford acquistò negli anni Venti per inseguire il sogno automobilistico. La MCS, come la chiamavano gli abitanti di Detroit, si trova in un’area delimitata dal Fleming Channel, un corso d’acqua dove corre il confine Stati Uniti-Canada e che entra nel lago St. Clair. La stazione fu costruita nel 1913 e abbandonata nel 1988, quando le ferrovie Amtrack chiusero le loro linee, e quando la città era già sprofondata nell’inferno da un pezzo.
La grande fuga, che ha portato all’abbandono di pezzi importanti della metropoli industriale, cominciò alla fine degli anni Sessanta, quando Detroit fu sconvolta dagli incidenti a sfondo razziale che ebbero come scintilla l’intervento in un bar di alcuni agenti di polizia, bianchi e dal comportamento apertamente razzista. L’arresto di tutti i presenti, di colore naturalmente, che festeggiavano il ritorno dal Vietnam di due veterani, innescò cinque giorni di disordini, razzie, incendi con il bilancio di 43 morti, un migliaio di feriti e 7 mila arresti. Seguirono anni terribili: i bianchi cominciarono ad abbandonare la metropoli preferendo i sobborghi più tranquilli e si alterò l’equilibrio con gli afro-americani che dal 44 per cento arrivarono ad essere il 76 per cento della popolazione. E l’elezione di sindaci quanto meno discutibili accompagnò la quotidiana discesa all’inferno. Prima Coleman Young, afro-americano con un passato di sindacalista radicale, che governò sull’onda di una rivincita di razza che portò allo smantellamento di strutture e di istituzioni solo perché portavano l’impronta dei bianchi, senza però costruire nulla di nuovo. E poi fu la volta di un ex giovane deputato dello Stato del Michigan, Kwame Kilpatrick, anche lui afro-americano, subito ribattezzato Hip-Hop Mayor: usò la sua carica (e la carta di credito) per darsi alla bella vita, lasciando la città nelle mani di cricche di ogni tipo.
Adesso Dave Bing appare uomo di tutt’altra pasta. Ma la città ha ormai cambiato volto. C’è il commissariato di polizia dove negli armadi ci sono ancora appese le divise. Lo studio del dentista ancora intatto anche se invaso dalla polvere e dalla sporcizia. Il cinema teatro con la sala invasa dai detriti del soffitto crollato. La chiesa con le panche ancora allineate e l’altare vuoto da ogni segno religioso. Per non parlare delle aree residenziali dove le case unifamiliari disabitate sono state il bersaglio di vandali che si sono divertiti a incendiarle. Può lo sforzo dell’amministrazione recuperare tutto questo e dare un volto nuovo all’ex capitale industriale degli Stati Uniti? Il sindaco deve combattere innanzitutto con un bilancio che non lo fa dormire la notte. La città ha un deficit di cassa di 155 milioni di dollari e debiti a lungo termine per 5,7 miliardi. I soldi sono così pochi che è impossibile pensare di raggiungere tutti gli angoli di Detroit con servizi come la raccolta dei rifiuti, i trasporti pubblici, i pompieri e la polizia.
Dave Bing ha detto che la maggior parte degli edifici andranno demoliti e ha invitato chiunque abbia idee a presentarle e a discuterle con la sua amministrazione. A settembre dell’anno scorso si è svolta anche la prima di una serie di riunioni aperte a tutti i cittadini. Affollatissimo l’esordio, ma poi tutto si è sfilacciato perché i partecipanti portavano in discussione solo il loro caso. In compenso, sono fiorite molte iniziative di fondazioni, mecenati, organizzazioni filantropiche. Ma sono singoli progetti che non possono cambiare il volto di quella parte di città che sembra uscita da un bombardamento.
Il sindaco Bing ha messo in moto un progetto per convincere agenti di polizia e vigili del fuoco che abitano nei sobborghi a rientrare a Detroit, primo nucleo per indurre altri a seguire lo stesso percorso sapendo di avere come vicini di casa persone che garantiscono un elemento base della convivenza, la sicurezza. L’offerta è allettante: acquisto di una casa abbandonata e rientrata nei titoli di proprietà della città per soli mille dollari oltre a un finanziamento per la ristrutturazione. Entro la fine del 2011 si saprà in quanti hanno accolto la proposta. Intanto Dave Bing mette in guardia dai facili ottimismi: "Quando io immagino la Detroit del futuro vedo una città fatta di quartieri pieni di vita e di negozi, una città che attira le piccole imprese, con un migliore sistema di trasporti e spazi verdi. Ma tutto questo non accade in una notte".