Federica Bianchi, l’Espresso 17/3/2011, 17 marzo 2011
PIU’ CHE RIBELLI, PATRIOTI
Il mondo li chiama ribelli. Ma sono patrioti, perché combattono per liberare la loro patria dall’uomo che avrebbe dovuto trasformarla in nazione e invece l’ha resa schiava. Tutti uomini. Alcuni sono militari di professione, il consiglio di Bengasi li stima al 10 per cento, gli altri civili. Per la maggior parte hanno tra i 15 e i 40 anni. I più coraggiosi, quelli che in nome di Allah e del popolo si gettano a petto nudo e a piedi contro il fuoco nemico, non hanno un lavoro e nemmeno una famiglia. Gheddafi li teneva in vita con sussidi che bastavano a comprare da mangiare, procurarsi le sigarette (che fumano come ciminiere), magari un po’ di hashish (che circola in abbondanza) e perfino una bottiglietta di grappa prodotta localmente, lascito della colonizzazione italiana. Ma certamente non a costruirsi un futuro. "Non avrò mai i soldi per comprarmi una casa, e quindi, secondo la nostra tradizione, non potrò mai sposarmi", sospira Maadi, un disoccupato trentenne.
Hanno imbracciato le armi il 17 febbraio scorso, dopo che le guardie di Gheddafi hanno trasformato la manifestazione pacifica di Bengasi in massacro. La maggior parte di loro non le sa usare. Sono i vecchi militari in pensione a spiegare come caricare i bazuka di matrice sovietica, come oliare i pezzi contraerei, come montare una tecnica, ovvero un pick up con a bordo una mitragliatrice, equipaggiamento collaudato in Somalia e popolarissimo sul fronte libico. Non sempre ascoltano i consigli, e a volte ignorano chi spiega loro che nemmeno con l’aiuto di Allah un Kalashnikov ce la potrà fare contro l’artiglieria dei militari scelti di Gheddafi. O che i fucili di legno dei loro nonni rivoluzionari, quelli che hanno combattuto contro la dominazione di Mussolini, sono poco più di vecchi cimeli, e che i machete che s’infilano nella cintola possono andare bene per difendersi da un ladro ma non dalle mitragliatrici del rais.
"Stiamo cercando di fargli un corso lampo nell’utilizzo delle armi", spiega l’ex colonnello Bashir, barba bianca a incorniciare due occhi calmi, oggi ufficiale dell’esercito rivoluzionario, e, sul fronte del villaggio petrolifero di Ras Lanuf, unica autorità riconosciuta. Per lo meno dai combattenti che hanno avuto il tempo di individuarne la casacca blu mimetico. I più svegli apprendono l’abc delle mitragliatrici in fretta. La guerra da queste parti è un mestiere che s’impara sul campo. "Sono qui da due giorni e ormai sono un esperto", spiega fiero Ahmed, fino a tre settimane fa uno studente di medicina all’università di Garyounis a Bengasi. "Un repentino cambio di carriera", la butta sul ridere il ragazzo che ne traduce parole ed entusiasmo. "Non siamo un esercito organizzato e non usiamo tattiche militari", continua Bashir: "I nostri sono metodi rivoluzionari, e la morte non ci fa paura". Per i ragazzi l’unica esperienza di guerra precedente è quella con i videogiochi. "Sono qui con i miei vecchi compagni di scuola", racconta Mohammed, 21 anni, mentre lubrifica la mitragliatrice a Brega, una cittadina strategica sulla via per Sirte, la città natale di Gheddafi: "Nessuno di noi ha un lavoro vero, "the Gheddafi" ci ha tolto tutto, ma adesso lo costringeremo ad andarsene". Sanno di non avere altra scelta. Se il "cane pazzo" resterà, loro saranno tutti giustiziati. Tanto vale morire in battaglia da martiri, lottando per liberare il Paese. Anche se non è poi così facile.
Qualche giorno fa un ragazzo poco più che teenager si era messo a prendere a calci una bomba inesplosa. È scoppiata. Lui è morto sul colpo. "Non esiste disciplina, ognuno fa quello che vuole", si lamenta Bashir mentre gestisce due cellulari e decine di conversazioni con uomini che pendono dalle sue labbra: "Fumano troppo hashish e continuano a sprecare munizioni sparando in aria". Sono vestiti come capita, con giubbotti di tela cuciti in Egitto, con giacche mimetiche e pantaloni verde militare trovati nei depositi dell’esercito, con coperte di lane e T-shirt del Che. Alcuni indossano scarpe da ginnastica, altri mocassini neri più adatti a un ufficio che al fronte, altri ancora soltanto ciabatte di plastica. Chi riesce a trovarlo s’infila in testa un fez rosso, accessorio delle truppe scelte del dittatore. E poi ci sono gli uomini del Sud che combattono con lunghe tuniche bianche e giacchetti di pelle che ad un occidentale ricordano i mujaheddin afghani. "Ma con l’Afghanistan e l’Iraq non c’entriamo nulla, e tantomeno con Al Qaeda", ribattono loro.
Andare a combattere è una scelta individuale. Ti chiamano al telefono gli amici e, se te la senti, parti. In qualunque momento puoi tornare indietro. Non esiste un esercito e dunque nemmeno la diserzione. "Guardiamo la televisione, chiediamo agli altri dove si trovano e poi partiamo per aiutare i nostri fratelli", racconta Abdullah, 27 anni: "E se non abbiamo le armi, non importa. Le raccoglieremo dai morti". Le gomme scricchiolano e i pick up s’impennano, sulle portiere, dipinte con bombolette spray, le diciture "esercito rivoluzionario" o "esercito del popolo". La ventosa mattina dell’attacco al villaggio petrolifero di Ras Lanuf erano pronti poche centinaia di combattenti, affiancati da decine di medici preparati ad assistere al peggio. Un gruppetto di venti era partito a bordo di un autobus bianco, come se stessero andando a una gita scolastica. I rinforzi sono arrivati in serata, quando all’obitorio di Brega si contavano i morti e le infermiere curavano i feriti. Non avevano saputo in tempo delle manovre. D’altra parte non ci sono orari né strategie chiare a guidare le truppe. E le comunicazioni sono difficili.
Tra i nuovi arrivati qualcuno si era aggiunto alle truppe da poche ore, armato solo d’entusiasmo, come quel ragazzino che arrampicandosi su un camion ha urlato: "Le guardie di Gheddafi combattono per soldi, noi per la libertà". Lungo la strada verso la prima linea, ai pick up si alternano Sedan, vecchie jeep con 600 chilometri sul contatore e Lada dei tempi della grande Russia. Non tutti sono lì per sparare. "Non si può combattere se si ha fame", osserva un signore di mezz’età impegnato a servire riso rosso, falafel e agnello dal bagagliaio della sua Toyota, parcheggiata a poche centinaia di metri dai bombardamenti nemici. Mancheranno le munizioni. Mancherà presto anche la benzina. Ma in questa guerra acqua e cibo sono disponibili in abbondanza. Come coraggio e determinazione.