Stefano Caselli, il Fatto Quotidiano 11/3/2011, 11 marzo 2011
GUARINIELLO: I MIEI PRIMI 70 ANNI “I MAGISTRATI SERVONO ANCORA”
Quando s’inaugurò il nuovo Palazzo di Giustizia di Torino, tutti si chiesero come avrebbe fatto l’allora pretore Raffaele Guariniello, che della piccola Pretura di piazza IV marzo aveva addirittura le chiavi, perché era sempre l’ultimo ad uscire a tarda sera. Semplice, alla fine gli hanno dato anche le chiavi del Palazzo di Giustizia. Oggi, alla vigilia dei 70 anni (li compirà il 15 marzo), il procuratore aggiunto Guari-niello sembra pensare a tutto tranne che alla pensione, soprattutto quando rievoca oltre 40 anni di battaglie a tutela della sicurezza sul lavoro e della salute dei consumatori: “Se ne è valsa la pena, come dice Armando Spataro? Il passato mi interessa poco – risponde sorridendo, dietro a una scrivania colma di carte ordinate – io sono proiettato verso il futuro e credo che fare il magistrato sia servito. E sono sicuro che servirà ancora, malgrado le cose che si sentono...”.
Appunto, “malgrado le cose che si sentono”. Che fine avrebbero fatto, per esempio, le centinaia d’inchieste di Guariniello senza l’obbligatorietà dell’azione pena-le?
L’obbligatorietà, come la possibilità di disporre della polizia giudiziaria, è il corollario naturale dell’indipendenza della magistratura, intesa nel suo complesso. Il pm è un osservatore attivo della realtà e spesso prende notizia del reato di sua iniziativa, senza aspettare una denuncia. Noi, per esempio, lavoriamo molto sulla letteratura scientifica, conserviamo riviste mediche, tecniche. Ricordo il caso del “sudan rosso 1”, un colorante cancerogeno ampiamente usato nella coltivazione del peperoncino. Ne scoprimmo la nocività grazie a una rivista e da quasi dieci anni è stato ritirato dal mercato. Ma di esempi potrei farne a decine.
Qual è la cosa più importante che le ha insegnato il suo mestiere?
Che il nostro è un Paese straordinario , con un sistema di norme che l’assenza di una magistratura autonoma inevitabilmente comprometterebbe. L’ho capito già all’inizio della mia carriera, quando scoprimmo le schedature Fiat, nel 1971. Perquisimmo una stanza della palazzina di corso Marconi dove nessuno era mai entrato e trovammo una mole stupefacente di materiale (migliaia di dossier su dipendenti, militanti politici, uomini delle istituzioni, giornalisti, compilati illecitamente su incarico dell’azienda da uomini dei Servizi segreti e delle forze dell’ordine, ndr). Il processo venne subito dirottato a Napoli, finì tutto in prescrizione, anche se in primo grado cui fu una condanna. Lì capii che il nostro sistema di norme, se applicato correttamente, riesce ad ottenere dei risultati. La sola celebrazione di un processo , indipendentemente dagli esiti, spesso genera la soluzione di un problema.
È un principio che vale ancora?
Certamente. Prendiamo il caso Eternit (processo in corso a Torino contro la multinazionale svizzera per le centinaia di morti causate dall’esposizione all’amianto, ndr), un processo che sta attirando l’attenzione del mondo. La gente rimane stupita dell’originalità del nostro Paese, ossia del fatto che in Italia sia possibile arrivare a un procedimento penale per fatti di questo genere. Ci stanno provando anche in Francia, ma con grande difficoltà. Lì c’è il pool de la Santè, una cosa molto simile alla procura nazionale che penso servirebbe anche in Italia. Ci lavorano persone di grande valore, ma non ricevono i casi dalle procure locali. E questo, purtroppo, è quello che capita quando il pubblico ministero non è autonomo dal potere politico.
Il processo Eternit non nasce per caso, sono decenni
che la magistratura si occupa di amianto...
Il primo processo per tumori professionali fu nel 1989 per la morte di un uomo che aveva lavorato nel palazzo della Rai di Torino, allora pieno di amianto. Fu il primo tassello e sembrava una cosa inaudita. Oggi abbiamo un osservatorio sui tumori professionali dove organizziamo e raggruppiamo tutti i casi di cui si ha conoscenza. Così i processi non si perdono in mille rivoli e possono nascere procedimenti con miglia di parti lese come quello Eternit.
Lei si occupa da sempre della sicurezza sul lavoro. Qual è, da questo punto di vista, lo stato di salute del capitalismo italiano?
Rispetto ai primi anni 70 le cose sono ovviamente migliorate, e non di poco. Si è diffusa una consapevolezza che prima non c’era. Ma non basta. Oggi esiste ancora un evidente divario tra le diverse zone del nostro Paese. Dappertutto ci sono problemi irrisolti, ma al Sud è peggio. Ci sono situazioni di elevatissima disapplicazione delle norme, con gravi responsabilità degli organi di vigilanza e della magistratura.
In tempi di crisi si è soliti
contrapporre il lavoro ai diritti. Vede un pericolo di regresso?
Io pecco sempre di ottimismo… Più che altro mi preoccupa un’altra cosa.
Quale?
La legge Mastella del 2006, quella che obbliga alla turnazione negli incarichi direttivi, riguarda anche i magistrati che per almeno dieci anni hanno lavorato in un gruppo specialistico. Questo significa che entro il 31 dicembre 2011 perderò sei o sette colleghi, tra cui anche i pubblici ministeri dei processi Thyssen-Krupp (la sentenza è prevista per il 15 aprile, ndr) ed Eternit, magistrati che hanno maturato una specializzazione formidabile costretti ad abbandonarla per legge. Ho scritto al governo, spero che qualcuno vi ponga rimedio…