Cesare De Michelis, Il Sole 24 Ore 11/3/2011, 11 marzo 2011
L’UOMO CHE VIDE IL PAESE CHE NON C’ERA
La vicenda biografica di Nievo, nato a Padova in via Sant’Eufemia il 30 novembre 1831, segnala come il Risorgimento può essere quasi interamente compreso nel decennio, o poco più, che trascorre tra la turbolenta rivoluzione del ’48 e la più prudente seconda guerra d’indipendenza, terminata in breve a Solferino e a San Martino con un radicale cambiamento di orizzonte ideologico, di pratica politica e di obiettivi strategici: l’entusiasmo e l’incoscienza della rivolta, finiti in tragedia, si capovolsero dieci anni dopo nella saggezza delle relazioni diplomatiche e delle alleanze.
Del ’48 resiste nella ricostruzione storiografica una mitologia eroica e "progressivamente" democratica, della quale i protagonisti sono Cattaneo, Mazzini, Garibaldi, Guerrazzi, Manin e qualche altro, disposti a qualsiasi sacrificio purché il sogno si avveri e sopravvissuti alla repressione controrivoluzionaria, anche se sarà bene evocare l’immagine affatto antieroica, anzi disastrosamente confusionaria e velleitaria che descrissero, delusi, alcuni attori e testimoni, tra i quali spicca per inequivocabile e provocatoria chiarezza il giovanissimo Nievo.
Ippolito, neppure diciassettenne, aveva dovuto terminare l’anno scolastico prima di correre a Custoza per giungervi a cose fatte e rendersi conto della sconfitta, e si era poi diretto a Pisa e Livorno, per essere protagonista di quegli eventi. Da là era tornato carico di una delusione così bruciante da diventare rabbia forsennata contro gli insorti e i capi, rivelatisi impari all’impegno che era loro toccato e affatto privi di lucidità e determinazione.
Nievo è in perenne tensione tra due poli: città e campagna, storia e natura, etica ed estetica, ragione e sentimento, senza che mai intravveda una mediazione risolutiva e tanto meno un "superamento" possibile.
La sua adesione alla modernità si esprime nell’accettazione di questo irrimediabile dualismo, nel quale si sviluppa l’umana esistenza, cercando un precario equilibrio, e questo vale persino di più anche in politica tra l’ansia febbrile di cambiamento e di rinnovamento e l’attaccamento "filiale" alla tradizione della propria identità.
Se si vuole, Ippolito è al tempo stesso "veneziano" e "italiano": da un lato «un battito che somiglia in soavità al palpito dell’amore mi risolleva le viscere quando penso alle sue lagune, alle sue cupole, alle sue gondole», dall’altro l’unità della patria, del suo popolo e del suo territorio, che gli appare come l’unico scenario possibile per uscire da «questo secolo di bastardi e di eunuchi a cui io arrossisco di appartenere»; e al centro delle sue riflessioni si impone il ’48 al quale dedica il suo primo romanzo, quell’Angelo di bontà che in copertina si dichiara "storia del secolo passato".
La vicenda narrata si svolge nel 1748-49, un secolo prima della tragica rivoluzione: non è avventato pensare che lo scarto temporale serva a depistare gli arcigni censori austriaci e a rendere plausibile la disamina di un’esperienza che tormenta l’autore e vale «a provare che ogni virtù non diserta il mondo, per quanto perverso, né le anime quantunque corrotte», per di più presentandosi esemplarmente «come transizione al secolo presente». La ribellione che Celio e i suoi compagni preparano nel 1748 per rendere l’autonomia alle province sottomesse della Dominante vede unirsi alla interessata nobiltà terriera «quella setta filosofica nella quale cominciavano a sobbollire le altre fazioni avverse agli ordini sammarchini», senza elaborare obiettivi condivisi.
Per un verso, Nievo sottolinea la profonda divisione tra i ribelli che mina l’efficacia dell’azione, per l’altro mette al centro il complesso e imprescindibile rapporto che resiste tra il generoso desiderio di cambiamento e rinnovamento e l’antica tradizione civile della Serenissima, anche al di là dei segnali di decadenza e degli atteggiamenti di chiusura conservatrice della classe dirigente, cosicché Venezia, la sua storia, le sue istituzioni, si rivelano un saldo punto di riferimento anche per i novatori più determinati.
Nell’agosto del ’49, quando sul ponte sventolò la bandiera bianca degli insorti, tramontò il sogno di un gruppo che si era illuso di resuscitare la Serenissima al grido di "Viva San Marco!", mentre la città precipitava per la seconda volta in servitù, incapace di agganciarsi a quel grande disegno unitario che rappresentava il traguardo di autentica modernizzazione della penisola.
La rivoluzione si era da sé capovolta in restaurazione e il moderno si era ribellato fino al punto di diventare strumento di distruzione della stessa città per la prima volta bombardata dall’alto con palloni aerostatici e abbandonata a un ingrato destino di isolamento.
Nievo ha in testa tutt’altro sviluppo della storia e, negli anni in cui sugli spalti della fortezza mantovana di Belfiore muoiono i martiri patrioti, insiste sulla necessità di ricucire le ferite che l’incoscienza rivoluzionaria ha prodotto e continua a produrre nell’identità italiana, che lui immagina conquistata nel tempo lungo di una vicenda millenaria e quindi fortemente segnata dalla presenza della Repubblica.
Quel che bisogna perseguire non è né la restaurazione, né la rivoluzione, ma una metamorfosi, che trasformi la nobile eredità della storia nelle fondamenta e nel patrimonio di una nazione libera e unita.
Da qui, da quest’idea di trasformazione, prenderanno avvio le Confessioni di un italiano, che, cominciano con queste parole: «Io nacqui veneziano... e morrò per grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo». Sono trascorsi tre anni dalla stesura di Angelo di bontà e il disegno civile e politico di Nievo si è chiarito, tanto da sostenere il racconto compiuto di un’esperienza che ha inizio prima della caduta della Serenissima e, attraverso avventure giacobine e napoleoniche, restaurazioni asburgiche, congiure e rivoluzioni fallite, «si slancia nel futuro degli uomini» prossimo e possibile, fissando e definendo le pietre miliari che indicano la strada nuova.
Il capolavoro nieviano racconta, come ha scritto oltre mezzo secolo fa Sergio Romagnoli, «la faticosa e avventurosa affermazione di italianità di un uomo nato in un lembo italiano quando ancora l’Italia non era»; è piuttosto che un romanzo storico, una profezia, nella quale passato e futuro sono gli elementi di un’alchimia che trasforma l’uno nell’altro, e vede nella morte la vita a venire, tanto che quel che conta è ciò che non accade, quel che non è ancora presente perché è ferventemente atteso.
Il romanzo del Risorgimento dell’Italia scritto prima che sia avvenuto è un’opera pedagogica e progettuale, nella quale le parole non sono fatti, «ma fatti sono gli effetti che se ne ottengono»: «Dove tuona un fatto, siatene certi, ha lampeggiato un’idea».
L’Italia che non c’è, la nazione che ha fallito nella rivoluzione quarantottesca, resiste nell’orizzonte degli ideali e nell’universo della memoria e della tradizione che faticano a confondersi e saldarsi, anche se per entrambi non si dà altro destino.
Il futuro lo si intravvede nel passato squarciando il presente: Nievo volge indietro lo sguardo per vedere specchiata nella storia la sorte della nazione, riconoscendo l’identità culturale e letteraria della stessa e trovando le radici della patria dove dovevano essere, a Venezia. Il romanzo nieviano è generosamente sognante e malinconicamente disincantato perché non ha conclusione reale; sa dove bisogna andare, ma riconosce che gli sfugge come si fa ad arrivarci.