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 2011  marzo 11 Venerdì calendario

Bernard-Henri Lévy inviato in Libia

Bernard-Henri Lévy e i fantasmi della Libia - U n filosofo che si fa reporter di guerra, va tra la gente che è sottoposta al fuoco (nella guerra progredita linea del fuoco e retrovie sono una) e racconta quello che ha visto, con qualche riflessione psicologica e polemologica in più, prosegue in veste di combattente per la libertà la sua missione educatrice e ci consegna un’opinione forgiata sull’opinione diretta. Ricordo le memorabili testimonianze di guerra di Goffredo Parise (raccolte in Guerre politiche da Einaudi). Così ha fatto Bernard-Henri Lévy («Corriere» , 6 marzo 2011), dignificando gli uomini in armi come «rivoluzionari » e condannando gli aiuti umanitari dati alla cieca per scarico di coscienza. A quelli elargiti dal governo italiano non mancano mai, per conforto nelle catastrofi, grandi quantità di scatolette di tonno, piselli surgelati e maccheroni grossi come il dito medio. Tocca al tricolore fare di tutto Alta Cucina. Tuttavia, le ginocchia dell’Europa non si adattano più che a vivere piegate e scaricarsi la coscienza rende più inebrianti le nostre corse d’autostrada su quest’altra sponda, che crediamo sicura. Purtroppo i combattenti libici hanno più bisogno di «piombo distruggitore» (così cantavamo, all’epoca di Giarabub) che di Pomodori Pelati, e questo tutti glielo hanno finora negato. Ai sei punti elaborati da Henri Lévy aggiungerei l’aiuto in armi: o i partigiani non arriveranno mai a liberare Tripoli, col rischio di perdere anche Bengasi. Qua è da capire, innanzitutto, che de te ipso agitur. I governi italiani ci hanno consegnati alla Libia— così lunghi di vista e poveri di sensibilità da non vederci, tra pure passività umane, che un futuro panaffaristico avvitato alle trivelle. Con le visite a Roma dell’idolo angelico che già vacillava, sono stati fatti subire agli italiani comportamenti ignominiosi, da padrone a schiavo, che dà nausea rievocare. Ma quali affari o patti tengono, a un prezzo simile? La violenza libica ha tolto dall’ombra estese magagne italiane. Uno più consapevolmente dentro alle cose del mondo di Obama non avrebbe guastato. Neppure ora guasterebbe. A che farci, davanti alle coste africane, sono andate quelle tre gigantesche, tremende navi obamiane? Una crociera? La parata militare serve ancora a qualcosa? Con centinaia di aerei non possono fermare una decina di cacciabombardieri di Tripoli che si avventano sulla gente e sui guerriglieri? Che vuol dire: «Interveniamo se tutti mi dicono che posso farlo» ? L’Unione Europea si conferma autocastratrice— per aver di fatto respinto la Turchia. Perché il toro turco sarebbe, nel Mediterraneo delle acque sporche, un baluardo ben più solido per l’Europa di un’America che ne è lontana, che se ne allontana, e che ha importanti motivi per voler ripensare se stessa, i suoi oracoli caldei. Richiamate quel toro indietro, tenetevelo stretto! Perché la vostra ricchissima Unione è un palestrato molle. Questa rivoluzione che investe non dei sistemi ma tutto ciò che esiste di islamico, è una saldatura. Mi guarderei dal rallegrarmene troppo, per la banalità dell’esito. Di fatto, la sponda nostra, democratica, termine d’Occidente, è già fibbiata con quella opposta — Libia con più evidenza, dove c’è un Gheddafi che vive ma è un fantasma di ieri, fibbiata in senso abbondantemente tecnologico. L’ostacolo alla saldatura era l’assenza di democrazia e dei suoi significati (che considero degeneranti) ma la rivoluzione in corso, non potendo che crescere, tende a turare l’enorme frattura che la Tecnica, che comanda su tutte le sponde, non ammette più. Il risultato – non c’è da goderne troppo— sarà altro Villaggio Globale, altro e più Occidente (e certamente più libertà, più diritti per popoli privi) insieme, come una salvezza dall’uniformità, a più ombre di sfingi sui destini umani.