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 2011  marzo 06 Domenica calendario

COSÌ PERSE LE ALI TIBERIO MITRI FACCIA D’ANGELO


Doveva intitolarsi Un pugno e un bacio la fiction di RaiUno sul pugile triestino Tiberio Mitri con Luca Argentero e Martina Stella e che sarebbe dovuta andare in onda oggi e domani. Il titolo è stato cambiato in Il campione e la miss, ma non è mutata la sostanza: l’atmosfera un po’ romantica e piacevolmente malinconica degli anni felici del pugile e di sua moglie Fulvia Franco, Miss Italia 1948. Arriva lo stop di Del Noce: sulla fiction pende il ricorso al Tribunale civile di Roma da parte di David, nipote del pugile. Per i legali il personaggio interpretato dalla Stella non corrisponda alla realtà. Il giudice potrebbe pronunciarsi oggi.
Non sappiamo come sia la miniserie. Se non che si concentra nell’arco di tempo in cui Mitri fu il campione da tutti stimato, l’eroe nazionale, il mitico “Volto d’Angelo”. Quello che sappiamo è che la vita del pugile morto il 12 febbraio di 10 anni fa, è stata una vita complicata, tragica, piena di luci e ombre. E allora c’è da chiedersi: si può raccontare una vita senza dolore? In particolare, la vita un pugile?
I primi capitoli ci sono già, a firma Tiberio Mitri, nell’autobiografia La botta in testa, scritta nel 1964 e pubblicò in un’edizione semiclandestina (ripubblicata nel 2006 per la cura di Massimo Raffaeli,edizioni Limina). «Io non ero un bravo ragazzo. Non avevo voglia di lavorare e avevo tanta fame» scrive Mitri, nato a Trieste nel 1926 e rimasto presto orfano di padre. Fu mandato in collegio prestissimo, collegio da cui scappa più volte.
Entra, per uscirne uomo, in una palestra dove si tirano pugni a un sacco e due avversari, sul ring, studiano il punto debole dell’altro prima di colpirsi. La boxe diventa una possibilità di salvezza. Non solo l’ennesimo lavoro, uno dei tanti fatti e abbandonati immediatamente (lo scaricatore al porto, il fattorino, fino all’impiego al Comune). «Cominciai a tirare pugni per campare. Perché fino a quel momento avevo campato per tirare pugni».
Tiberio vuole vincere, è ambizioso, sogna i ring più importanti del mondo e ci mette tutto se stesso per farlo. La vita risponde al suo impegno. Nel 1948 conquista il titolo italiano dei pesi medi e un anno dopo riesce a sorprendere tutti, sconfiggendo quel drago belga che fu Cyriel Delannoit, raggiungendo così il titolo europeo. Mitri è già diventato un mito per la società, rappresenta quel riscatto sociale che, negli anni appena dopo la seconda guerra mondiale, era il sogno di tutti gli italiani. I miti del calcio sono ancora lontanissimi. La boxe – così come il ciclismo (con le figure di Coppi e Bartali) – è la metafora della fatica di rinascere e ricostruire una speranza, un futuro. Il ring è il «teatro della sopravvivenza».
Nel 1949, Mitri incontra il primo vero amore della sua vita, dopo le infinite avventure che la sua bellezza d’angelo e la sua scaltrezza gli avevano procurato. Ma Fulvia Franco, la ragazza che sposerà sei mesi dopo averla conosciuta, è più testarda e ambiziosa di lui. Lei, che ha appena vinto il concorso più ammirato dalle ragazzine dell’epoca, ora sogna il cinema e crede di avere le carte giuste per farlo. Punta al titolo più prestigioso, girare un film a Hollywood. La storia tra i due sembra una favola da rotocalco, lo stesso matrimonio è celebrato in una calca di curiosi e di fotografi che vogliono incorniciare i due giovani miti nazionali sulle pagine delle riviste di costume. L’evento è raccontato assai bene nella biografia dedicata a Mitri e da poco pubblicata a firma di De Grassi e Baf, Tiberio Mitri, il pugile, la favola, il dramma (Edizioni Anordovest, 2010).
L’occasione della vita, per entrambi, arriva nel 1950. Il grande pugile francese Marcel Cerdan, il bellissimo atleta che aveva come compagna di vita la cantante Édith Piaf, ottiene la rivincita per il titolo del mondo negli Stati Uniti. Ma non arriverà mai a destinazione, perché l’aereo sul quale viaggiava precipita inesorabilmente. Serve un sostituto, il crico mediatico si era già messo in moto. E non c’è nessuno più adatto di Mitri a ricoprire quel ruolo: lo stesso Cerdan lo aveva nominato il suo erede naturale in un’intervista – per l’eleganza, l’armonia del movimento del loro boxare. Tiberio ha solo ventiquattro anni, gli sembra di stringere tutta intera la vita in un pugno. Non sa che l’incontro che nel mese di luglio disputerà (grazie anche al consenso della mafia italo-americana che gestiva all’epoca gli incontri) sarà l’inizio della fine.
Ad aspettarlo dall’altra parte dell’oceano c’è un rivale selvaggio, un killer del ring, un italo-americano che non teme nessuno: è il «Toro del Bronx» Jake LaMotta, che De Niro interpreterà meravigliosamente in quel classico del cinema che fu Toro scatenato. (Una leggenda racconta che alla prima del film, LaMotta lamentasse alla sua ex moglie di essere stato dipinto in maniera troppo violenta. Lei, che quella violenza l’aveva provata sulla pelle, rispose che era vero, non era così violento come nel film: era peggio). Quell’incontro non sarà solo una grande serata pugilistica, ma un evento mondiale di costume. Mitri viene seguito in America da sua moglie Fulvia che, mentre il marito si allena per il match, gura Los Angeles a cercare ingaggi per il cinema, ma senza molta fortuna. Anche all’altro angolo del quadrato le cose non sono diverse. LaMotta, che è campione del mondo dei medi, ha sposato Vickie, che fu Miss America nel 1948.
La sera dell’incontro, il Madison Square Garden è un tripudio di riflettori, che nascondono il tonfo di Tiberio. I pugni del «Toro» sono pietre troppo difficili da sostenere – come ripeterà spesso in vecchiaia ai pochi intimi che gli domandavano di raccontare ancora una volta quella serata. L’orgoglio di Tiberio gli permette di non andare ko e di finire in piedi tutte e quindici le riprese; ma la disfatta è evidente. Il successo, le donne, il denaro sono una grande illusione, durata troppo poco, una manciata di anni. Che lui stringe ancora più forte: il pugilato, infatti, gli regala ancora soddisfazioni. Ottiene nuovamente il titolo europeo nel 1954 in un incontro leggendario che Tiberio chiude alla prima ripresa: un passo veloce del piede di guardia e la precisione di un gancio sinistro alla tempia che manderà a terra l’inglese, ed ex campione del mondo, Randy Turpin. Ma lo splendore della sua freschezza atletica sembra ormai svanito. Tiberio, che si sente ancora un «Angelo», prova allora strada del cinema. E gli va decisamente meglio di sua moglie Fulvia (dalla quale si separerà nel 1954, pur avendo avuto con lei un figlio, Alessandro). Antonioni lo voleva per un suo film, ma lui rifiuta. Riesce però a recitare comunque in numerose pellicole: per Monicelli ne La grande guerra, al fianco di Alberto Sordi e Vittorio Gassman, in Ben Hur, in Totò a Parigi, in I due nemici insieme ad Amedeo Nazzari, in La signora della notte, una commedia sexy con Serena Grandi, fino alla partecipazione nella fortunata serie tv Classe di ferro, in onda nel 1989. Ma all’«Angelo» sono ormai cadute le ali. Il cinema è una nuova illusione, ma meno potente. Non lo porterà a rivivere lo stesso successo avuto nei ring di tutto il mondo. Scopre la droga, la cocaina, e spende tutto quello che ha guadagnato in una vita.
Arrivano le tragedie, dalle quali non si riprenderà mai. La morte di entrambi i figli. Alessandro, che aveva avuto con Fulvia Franco, morirà di overdose, e Tiberia, avuta da una compagna americana, muore di AIDS. Infine la malattia, l’Alzheimer, la bestia dell’oblio. Mitri, che aveva resistito ai colpi duri di tutti gli avversari incontrati, ora è costretto ad arrendersi alla vita. Gli capita più volte di dire che non pensava, no, che la vita fosse così lunga, così resistente. Così duratura, per lui, rispetto al successo. La sfida, nella vita, è resistere al dolore che ti viene incontro come un pugno colpendoti sempre, che tu abbia la guardia bassa o pronta. La resa non fu una novità, Tiberio Mitri aveva già visto, alla distanza, il suo destino in controluce. Chiude infatti così la sua autobiografia, in una frase perfetta, che ha tutta l’aria di un epitaffio: «Prima di morire si è capaci di rivivere la vita in un soffio. L’abbandono è anche morte. La lontananza distrugge le immagini come il tempo. E tutto si dimentica...». Scrisse queste parole molto prima della disfatta definitiva avvenuta in quella tragica sera di febbraio del 2001. Ormai povero e dimenticato da tutti, abitava in un appartamento a Trastevere a Roma. Qualche volta si fermava in una palestra di pugilato e osservava i ragazzi allenarsi e combattere, come ripercorrendo il filo della sua vita al contrario.
In un festoso locale di Trastevere, scrive in La botta in testa, annuncia alla stampa il suo ritiro dal ring. «Da quel momento - scrive - vedevo allontanarsi un mondo... come quando si segue un oggetto al margine della ferrovia e in breve non si può più nemmeno immaginarlo, tanto breve è stata l’apparizione». Tiberio camminava solo per le vie della città, chissà se immaginò che quella stazione, Termini, fosse una casa che poteva accoglierlo perché da nessuno ambita. Camminava in stato confusionale, si infilò tra i binari sopra i quali i treni sfrecciano, tra le linee delle rotaie che abitano quella «lontananza» che succhia le immagini e il tempo in una grande penombra. Il treno che andava a Civitavecchia lo colpisce in pieno.