Gianni Toniolo, Corriere della Sera 11/03/2011, 11 marzo 2011
Ma la stagflazione degli anni 70 questa volta non tornerà - Fu necessario inventare un brutto neologismo: «Stagflazione» (ci pensò il deputato inglese Iain Macleod)
Ma la stagflazione degli anni 70 questa volta non tornerà - Fu necessario inventare un brutto neologismo: «Stagflazione» (ci pensò il deputato inglese Iain Macleod). Erano gli anni successivi allo choc petrolifero del 1973: la domenica gli italiani andavano a piedi o in bicicletta, per il risparmio obbligatorio della benzina. Sino ad allora mai un’elevata inflazione si era sposata al ristagno della produzione e all’aumento della disoccupazione. Perfino l’orrenda iperinflazione tedesca del 1922-23, il cui spettro turba ancora le notti dei banchieri centrali di quel Paese, era stata accompagnata da un discreto aumento della produzione industriale. La storia aveva insegnato che la deflazione (diminuzione dei prezzi), altro fantasma periodicamente evocato negli ultimi dieci anni, poteva avere due facce: la benevola e la maligna. Un’esperienza della prima era stata fatta nell’ultimo quarto dell’Ottocento: la flessione dei prezzi, causata da aumenti di produttività in mercati resi più concorrenziali dal crollo dei costi di trasporto, non aveva intaccato la crescita della produzione. Tragica era stata, invece, la deflazione degli anni Trenta, dovuta al crollo della domanda mondiale, per i suoi devastanti effetti sulle aspettative degli imprenditori e sulla stabilità di banche e imprese fortemente indebitate, a tassi non indicizzati verso il basso. Quell’esperienza e l’ortodossia keynesiana alla quale aveva dato origine, facevano pensare, negli anni d’oro del boom postbellico, che una moderata inflazione aiutasse lo sviluppo e contribuisse ad allontanare lo spettro, ancora vivo nella memoria collettiva, di un’altra crisi finanziaria. Quando, nell’ottobre 1973, scoppiò la guerra dello Yom Kippur (o del Ramadan), lo slancio ventennale dello sviluppo si stava affievolendo. La guerra sanzionò la fine, già in atto, di una lunga stagione di bassi prezzi delle materie prime. L’Opec, creata nel 1960, si dimostrò un’efficace monopolista: nel giro di soli sei mesi il prezzo del greggio aumentò di quattro volte. Crebbe poi nuovamente di quasi due volte in risposta alla crisi iraniana del 1979. L’esplosione dei prezzi delle materie prime scatenò l’inflazione in Europa e Stati Uniti. L’indicizzazione dei redditi la radicò nelle aspettative. In America, tentativo di controllare artificialmente i prezzi produsse solo lunghe code alle pompe di benzina. In Italia, le domeniche senza automobili non mancarono di aspetti gioiosi ma non servirono a nulla. La caduta della domanda ridusse la crescita della produzione già in frenata. Crebbe la disoccupazione, fertile terreno per Brigate Rosse e Rote Armee Fraktion. La stagflazione pone un dilemma alle banche centrali: il rallentamento economico richiede tassi bassi, per sostenere redditi e produzione, ma la lotta all’inflazione postula un aumento del costo del denaro. Negli anni Settanta, l’Italia— ma anche Stati Uniti e Inghilterra— privilegiarono il sostegno dell’occupazione; la successiva la resa dei conti con l’aumento dei prezzi fu assai penosa. Oggi molti si chiedono se sia in arrivo una nuova stagflazione. La saggezza del grande fisico Niels Bohr rimanda alla difficoltà delle previsioni, soprattutto quando riguardano il futuro. I fallimenti, veri o supposti, delle facoltà previsive degli economisti, richiamati anche dal recentissimo mea culpa di Strauss-Kahn, consigliano prudenza. Si può però osservare che il mondo di oggi è diverso da quello degli anni Settanta almeno per tre importanti aspetti: la crescita arranca in Europa ma è robusta nel resto del mondo, tiriamo un sospiro di sollievo per la scampata deflazione e l’inflazione è per ora contenuta (i prezzi delle materie prime sono spinti verso l’alto più dalla vivace domanda che da vincoli di offerta). I prevedibili aumenti dei tassi di interesse da parte della Banca centrale europea, riflettono un ritorno alla normalità dopo la crisi, non la paura di una nuova stagflazione. Inutile, ovviamente, dire che le nostre economie— e quella italiana in particolare — restano molto vulnerabili agli choc petroliferi e che una rapida implosione dell’intero Medio Oriente (Iran e Arabia Saudita inclusi) cambierebbe radicalmente il quadro. Oggi, tuttavia, i banchieri centrali sono soprattutto preoccupati di imboccare lo stretto sentiero tra una ripresa ancora flebile e un’inflazione oggi non minacciosa ma pur sempre temuta. Nel 2007-2009, al malato sono state somministrate cure salvavita, senza fare attenzione — come da protocollo — agli effetti secondari dei farmaci. Adesso che l’economia atlantica è in convalescenza, è lecito pensare a minimizzare gli effetti secondari dei farmaci monetari sinora somministrati in abbondanza. Ma i medici fanno molta attenzione: le ricadute restano possibili e potrebbero essere fatali. Al momento sono queste le preoccupazioni piuttosto che quelle di un’imminente stagflazione.