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 2011  marzo 07 Lunedì calendario

MAZZINI CANTAUTORE

«ME NE VIVO sempre più nascosta, qui tra le valli svizzere, dove soffro parecchio per le ristrettezze della vita quotidiana e per il timore di essere trovata dalle guardie. Tra un trasloco e l’altro, una dimora e un’altra, non ho più con me neanche la chitarra, che mi faceva tanta compagnia. Ma il tempo è mutato in dolcissimo. Spesso non c’è una nuvola; ieri sono uscita a vedere il tramonto: che spettacolo! Le Alpi in faccia, il Jura alle spalle, non un rumore se non dei campanelli che hanno al collo gli armenti e di qualche canto di mandriano. Sono curiosi questi canti: consistono in un continuo saliscendi dal basso all’ acuto che ha qualcosa di doloroso. Dovrei dire di dolcemente doloroso. La nostra gola non lo può rendere. Appena riavrò la chitarra con me ne scriverò qualcosa, voglio provarmici. Io potrei vivere tutta la mia vita chiuso in una camera. Ma così: senza libri, senza chitarra e senza cielo sarebbe troppo». Firmato Giuseppina.
Giuseppina è in realtà Giuseppe. Giuseppe Mazzini che, scrivendo alla madre dalla Svizzera, deve fingersi donna per aggirare la censura. Per il resto la lettera è più che sincera, soprattutto nell’esprimere il suo amore per la musica e per la sua amata chitarra. Un amore che era considerato vitale ma che non era però fine a se stesso, o puramente artistico, ma squisitamente politico, come tutto nella vita di Mazzini, una delle personalità più complesse e profonde del Risorgimento italiano. Ma sono tante le lettere in cui il Grande Esule parla della sua chitarra. “Domenica andai a pranzo dagli israeliti. Prima del pranzo suonai, per la prima volta dopo che sono fuori, alcuni duetti per flauto e chitarra con uno d’essi. Anzi, vorrei che cercaste nella musica che aveva in casa qualche cosa di concertato, qualche duetto, se ne avete, per flauto e chitarra d’autori buoni; credo ve ne fosse qualcuno di Giuliani”.
In Svizzera il patriota, ricercato dalle polizie di tutti i regni d’Europa, trova anche il tempo di comporre una canzone: “Il canto delle mandriane bernesi”. Un testo semplice, quasi infantile, romantico, modellato sulle ballate popolari e non privo di quel sentimento di nostalgia e di perdita che non può non albergare nel cuore di un esule. “Dove sei tu, fioretto?/Fioretto del mio cor / Ti cerco al pian, sul colle, / nè ti ritrovo, o fior/ Ahimè! Ahimè!/ non v’è più fior per me; no no non v’è:/ ah no non v’è più fior per me! / Ti chiedo al sol nascente, / ti chiedo al dì che muor./ Errò di gente in gente / te sospirando ognor/ Ahimè! Ahimè!”.
Questa canzone rivedrà la luce grazie a due giovani musicisti, Fabrizio Giudice e Andrea Nicolini, che l’hanno inserita nello spettacolo “Chitarre corsare”, scritto con Sergio Maifredi, che mette insieme sul palco le vite avventurose e la passione per la chitarra del padre della Patria, del sommo Nicolò Paganini, del virtuoso Pasquale Taraffo e di Fabrizio De André. «Mazzini amava moltissimo la musica» spiega Giudice che ha suonato spesso la chitarra di Mazzini, conservata al museo del Risorgimento di Genova «e a giudicare dagli spartiti di cui parla doveva essere anche un buon esecutore. La sua chitarra fu costruita nel 1821 dal liutaio napoletano Fabbricatore. Era un po’ la Fender dell’Ottocento». «Il nostro spettacolo» aggiunge Maifredi che di “Chitarre corsare” è anche il regista «vuole valorizzare un patrimonio culturale ligure che però ha valenza internazionale. Tutti e quattro i protagonisti hanno vissuto la maggior parte della loro vita lontani da Genova che per loro è diventata la città della memoria».
Ma il chitarrista Mazzini che cantava gli amori delle mandriane degli alpeggi svizzeri ero la stesso che nella sua “Filosofia della musica” le attribuiva il più alto significato morale e politico e la vedeva come strumento per la nascita della nazione. Ma non tutta la musica. La sua critica sullo stato di quella italiana sua contemporanea è chiarissima, «un cerchio di imitazioni ove il genio s’aggira inceppato ai maestri dai trafficatori di note» che producono «forme senz’anima, suoni senza pensiero.
Alla musica, come al teatro, spetta invece quella funzione educativa così centrale nel pensiero di Mazzini e ancora oggi, probabilmente, una delle sue parti più attuali. Nel suo “Dei doveri dell’uomo” scrive: “Un principio educatore che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendere dall’idea di uno solo o dalla forza di tutti”. L’utopia mazziniana viene sconfitta e la nazione che nasce nel 1861 è ben lontana da quella per cui lui aveva combattuto.
«A differenza di Cavour e Garibaldi» spiega lo storico Donald Sassoon «Mazzini è un classico perdente. Tutte le insurrezioni che aveva progettato non avevano avuto successo. Nel 1860 quando viene pubblicato “Dei doveri dell’uomo” aveva ormai capito che tutti i suoi sogni e le sue speranze erano stati spazzati via». Ma proprio quel libro, subito tradotto in inglese, permetterà al suo pensiero di rimanere vivo e operativo fino ad oggi. Alla fine dell’Ottocento il testo era reperibile non solo in Europa ma anche in America Latina, in Cina e in India. Comparvero traduzioni anche nelle principali lingue indiane, bengali, indi, marathi, che ne fecero un testo di riferimento per un popolo impegnato nella lotta anticoloniale.
Nel 1905, per celebrare il centenario della nascita di Mazzini, Gandhi scrisse un articolo in cui diceva; “La povertà fu per lui un onore. Guardò. Guardò alle sofferenze altrui come fossero le proprie. Ci sono davvero pochi esempi nel mondo di un singolo uomo che abbia determinato l’edificazione della propria nazione con la sua forza d’animo ed estrema devozione per tutta la vita».